Venerdì 20 Giugno 2025

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  • 19/6/2025

LET'S TALK | Puntata 8: Intervista a Paolo Iacci

“Credo che gli orientatori siano veramente la categoria più sottovalutata e di cui c'è più bisogno in Italia, abbiamo bisogno proprio di ri-orientare in maniera diversa tutte le fasce di età”. Paolo Iacci ci racconta gli scenari del mercato del lavoro e analizza quanto e come stia cambiando per effetto della “rivoluzione silenziosa”, che produce conseguenze inedite e devastanti quali disimpegno, ghosting e insoddisfazione latente.

Puntata 8 – Ospite: Paolo Iacci, Docente di Gestione delle Risorse Umane all'Università degli Studi di Milano e autore del libro “La rivoluzione silenziosa - Quando le persone ridisegnano le regole”. Conduce l’intervista Vito Verrastro, Direttore Responsabile del magazine l’Orientamento.

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Oppure guarda la videointervista integrale

VV - Ben ritrovati su Let's Talk, questa rubrica della cultura dell'orientamento voluta da ASNOR, Associazione Nazionale Orientatori e dal magazine L'Orientamento. Con me c'è un ospite prestigioso, gradito, che ritrovo sempre con grande entusiasmo e piacere, Paolo Iacci, docente di Gestione delle Risorse Umane all'Università degli Studi di Milano, presidente di ECA Italia, direttore scientifico AIDP, autore di numerosi libri di management e di lavoro: non facciamo in tempo a citarli tutti, mi limiterò agli ultimi, “Smetto quando voglio”, uscito nel 2024, e “Dialogo sul lavoro e la felicità” con Umberto Galimberti.

Sono libri stra-consigliati perché regalano scenari di approfondimento su un'attualità sempre difficile da leggere, molto cangiante, molto veloce. Oggi con Paolo affrontiamo una piccola passeggiata all'interno del suo ultimo lavoro editoriale che è “La rivoluzione silenziosa” e che ha come sottotitolo “Quando le persone ridisegnano le regole”, scritto per Egea, fresco di stampa. Partirei esattamente dal titolo: che cosa sta succedendo e perché è silenziosa questa rivoluzione che tu stai leggendo all'interno del mercato del lavoro.

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PI - Prima di tutto, che cosa intendo io con questa rivoluzione? Si sono, secondo me, ribaltati i rapporti di potere tra individuo e organizzazione. Banalmente, tutti possiamo osservare come soltanto 10 o 20 anni fa le persone inseguivano in qualche modo le aziende e oggi le aziende sempre più inseguono le persone. Le persone se ne vanno dalle aziende molto di più, i cambi sono molto più repentini. Vi dò soltanto un dato: nel 2016 le dimissioni volontarie in Italia erano circa un milione ogni anno. Nel 2024 sono state 2 milioni e 100 mila. Quindi sono più che raddoppiate.

Perché è silenziosa questa rivoluzione? Perché mentre la rivoluzione di stacco, di contrapposizione del lavoro che c'era stata negli anni ‘70 e negli anni successivi era stata una rivoluzione, una contestazione, in qualche modo urlata, di massa, con la voce grossa, oggi è una rivoluzione individuale, non più di massa, e silenziosa; cioè, ognuno nella sua piccola sfera individuale cerca di trovare una via d'uscita personale. E molte volte viene trovata cercando di fare il meno possibile.

C'è un dato molto interessante che spesse volte viene citato, che è quello dell'indagine Gallup: è molto estesa, raccoglie quasi un centinaio di Paesi in giro per il mondo, e ci dice due cose. Primo, il livello di coinvolgimento delle persone: le persone che si percepiscono come molto coinvolte nel lavoro, in Italia sono circa l'8%. A livello mondo siamo al 21%. I manager dovrebbero essere quelli più coinvolti. In realtà in Italia sono il 24%, a livello mondo un po' di più, ma comunque basso, siamo al 27%. Ma è interessante anche chi in Italia si dichiara attivamente disimpegnato, che sembra un ossimoro. Gli attivamente disimpegnati in Italia sono circa il 25%, una persona su quattro. A livello mondiale siamo attorno al 15%. Addirittura, quelli che dicono che provano rabbia nei confronti del lavoro, rabbia verso ostilità aperta verso il proprio ambiente di lavoro, sono l'11%.

Sono tutti dati, questi che disegnano uno stato di sofferenza. Guarda qualche altro dato: il 46% dei lavoratori italiani si dichiara stressato, il 25% si dichiara triste. Cioè c'è proprio una sensazione collettiva, nella socialità, intesa in senso ampio, che si riverbera dentro le aziende.

E davanti a questo poco coinvolgimento tutti noi dobbiamo fare i conti.

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VV – È una situazione silenziosa, per tanti versi, che però fa rumore, perché questi dati effettivamente ci fanno riflettere tanto sullo iato che si sta creando tra individuo e organizzazione, tra individuo e lavoro.

PI - Spesse volte questo viene letto dalla stampa come un rifiuto al lavoro; questo non è vero, cioè non è che la gente scappa dal lavoro, noi non abbiamo mai avuto così tante persone nell'ultimo mezzo secolo come quelle che abbiamo oggi: abbiamo superato i 24 milioni di lavoratori attivi. Quindi non è che la gente rifiuta il lavoro: ha abbassato il livello, la soglia di frustrazione che considera accettabile. C'è una richiesta verso il lavoro che non è soltanto una richiesta di una buona equa retribuzione, che è quello che tutti dicono, ma c'è qualche cosa di più: c'è una richiesta di felicità, c'è una richiesta di benessere inteso in senso ampio, una richiesta di senso. Ecco, quindi noi dobbiamo rispondere un po' a tutte e due queste cose, sia ad un aspetto di carattere economico - che ovviamente è fondamentale - ma sia anche ad un aspetto di carattere ambientale e di significato del lavoro.

VV - Tu dici che è anche cambiato proprio il patto psicologico tra individuo e organizzazione, e che bisogna capire questo per entrare e leggere tra le righe del mercato del lavoro: è cambiato tantissimo, si è rovesciato quasi.

PI - Assolutamente sì. Una volta si ragionava ad esempio sui tempi lunghi: ragionavano le aziende sui tempi lunghi, per cui c'era ad esempio la pianificazione delle carriere, e ragionavano le persone sui tempi lunghi, perché quando io ho iniziato a lavorare sapevo che in qualche modo avrei migliorato ad esempio la mia condizione di vita rispetto a quella dei miei genitori. Oggi questo non è più così. Non c'è un'aspettativa di miglioramento da parte delle persone e le persone sanno che non possono ragionare sui tempi lunghi perché il mercato non glielo consente e quindi ragionano tutti sui tempi brevi. Questo ovviamente determina il fatto che c'è una grande difficoltà, ad esempio, ad accumulare esperienza.

Il tema della formazione è clamorosamente centrale nella vita professionale delle persone, perché una volta quando le aziende ragionavano su tempi lunghi, ci pensava in qualche modo l'impresa. Oggi, se tutti ragioniamo sui tempi brevi e quindi ci deve pensare l'individuo, appoggiandosi a strutture che però poi la società civile mette poco a disposizione, per cui questo rende ancora più complicato il nostro tragitto, soprattutto se lo guardiamo dal punto di vista della singola persona.

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VV - Sì, anche perché il paradigma oggi imperante è quello dell'occupabilità e non più dell'occupazione. Ecco perché poi la formazione continua riveste un grande impatto e ovviamente è un qualcosa che ognuno di noi deve fare proprio per navigare in questo mare sempre così molto tempestoso. Quando mi dicevi che si ragionava sui tempi lunghi e ora sui tempi corti ho letto una metafora molto carina che fa riferimento al matrimonio (pensando al mercato del lavoro di una volta) e a Tinder, app di appuntamenti, per riferirsi a quello attuale. C'è questa velocità anche nei rapporti di lavoro che spesso porta poi le persone a dimettersi, a voler cambiare, nonostante la stagnazione comunque di un mercato italiano che non è mai stato mobile.

PI - Guarda, c'è un dato interessante. Quando le persone cambiano, nel 45% dei casi, poi si pentono. Però non è che questo determina il fatto che io non mi sposto più. Determina il fatto semplicemente che io decido più velocemente di cambiare rispetto una volta. Una volta aspettavo di più, adesso mi pento e mi metto subito alla ricerca di un altro posto di lavoro. Tra l'altro, col fatto che il 48% delle ricerche di personale non è andato a buon fine - questo è il dato del 2024 - le persone che hanno un minimo di professionalità oggi, volendo il lavoro, lo trovano. E infatti il dato di disoccupazione è del 6% in Italia (purtroppo è più alto quello della disoccupazione giovanile), ma il dato è quasi a livello fisiologico.

Quindi non è questo il tema. Il tema è trovare un lavoro che ci possa soddisfare, con cui si possa vivere bene, ovviamente, e che valga la pena di essere fatto.

VV - Un buon lavoro. E un buon lavoro significa anche benessere, che è poi la prima esigenza in assoluto; all'interno del libro fai riferimento anche alle priorità che accompagnavano la generazione X, i baby boomer, che oggi spesso sono a comando delle aziende, che erano paradigmi di un altro tempo, mentre oggi il benessere psicologico è la prima priorità ricercata dai giovani e non solo.

Anche qui c'è un grande mismatch, un grande disallineamento.

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PI - Prendiamo il concetto di carriera: per le persone della mia età, carriera vuol dire passare da un lavoro meno retribuito a un lavoro più retribuito, da un lavoro con minor potere a un lavoro con maggior potere, da un lavoro di minore complessità a un lavoro di maggiore complessità. Cioè, ce la giocavamo sul concetto di potere. Oggi, fare carriera per moltissime persone, soprattutto i giovani, ma non solo, vuol dire avere una maggiore disponibilità del proprio tempo, poter godere di maggiore autonomia.

Mentre prima la carriera era fortemente legata al concetto di potere, oggi la carriera è fortemente legata al concetto di libertà. Questo è un cambio di paradigma radicale, fortissimo, di cui le aziende dovranno tenere assolutamente conto, ma che se io guardo dal punto di vista, ad esempio, degli orientatori, e dico che cosa ti piace fare, dove ti conviene orientare le tue attese professionali, beh, noi dobbiamo pensare prima di tutto di dare una visione realistica del mercato del lavoro.

Perché, ad esempio, oggi in Italia c'è una sottovalutazione del lavoro manuale, del lavoro tecnico, che assolutamente non regge più. E inoltre dobbiamo pensare anche a dei tipi di lavoro che consentano una maggiore flessibilità. Anche questo è un ulteriore elemento, perché una volta tutti noi avevamo in testa il posto fisso alla Zalone, e oggi quel posto fisso lì non è più un elemento prioritario perché se il posto fisso mi darsi garanzia di continuità ma mi chiude in una gabbia da cui poi non riesco ad uscire; beh, lì io la carriera per come la intendo oggi non la farò mai, per cui non andrò verso una situazione di benessere.

Prendo ad esempio la categoria degli insegnanti, che è una categoria che spesse volte, una volta, era un classico. Chi è che va a fare l'insegnante? Chi vuole avere tempo libero? Intanto oggi non c'è più tempo libero legato all'insegnamento, ed è la prima cosa. Seconda cosa, è un tipo di lavoro poco pagato e che la società - colpevolmente, colpevolmente, sottolineo - considera poco, ma per di più non dà quelle garanzie di libertà ed è un lavoro molto stressante. Se io guardo questo lavoro che non ha mai il merito come centrale, è un lavoro che vede gli operatori, gli insegnanti, come molto insoddisfatti.

Allorala stabilità che sicuramente c'è nel lavoro dell'insegnante non è un elemento che paga e questo determina proprio il fatto che chi orienta deve tenere molto ben presente questa cosa qui. Noi abbiamo invece ad esempio un lavoro manuale che viene molto sottovalutato, che però consente dei gradi di libertà in molti casi enormi. Ti dovesse perdere il un rubinetto di casa e dovessi cercare un idraulico, intanto buona fortuna; ma poi sei tu che sottostai in qualche modo ai tempi dell'idraulico.

L'idraulico ha sicuramente una libertà nell'organizzazione del suo lavoro che l'insegnante non ha. Ed ecco che allora i livelli di soddisfazione noi li andiamo a percepire in maniera completamente differente.

VV – Un quadro capovolto, ancora una volta capovolto. E su questo mi viene in mente che magari gli ITS possono e potranno essere una risposta magnifica a tutto questo, però ancora si fa fatica a promuoverli e a dare la giusta importanza.

PI - Guarda, io credo che gli orientatori siano veramente la categoria più sottovalutata e di cui c'è più bisogno in Italia, perché l'ITS è clamoroso come come esempio.

Oggi sono circa 24.000 gli iscritti agli ITS, in Germania sono un milione. Stiamo parlando di un altro pianeta. Noi abbiamo un bisogno assoluto di persone che vadano verso gli ITS e di popolazione femminile che vada verso gli ITS. Abbiamo pochissime donne che ci vanno.

Abbiamo bisogno proprio di ri-orientare in maniera diversa.

Molte volte le lauree, soprattutto le lauree non professionalizzanti, sono un cul-de-sac da cui bisogna uscire, mentre ad esempio orientare i giovani verso gli ITS sarebbe un'azione assolutamente meritoria, sia per il sistema economico sia soprattutto per le persone.

VV - Grazie per aver aperto il fronte che ci porta nella casa degli orientatori: abbiamo aperto la porta e ci siamo portati su questo terreno su cui volevo in qualche modo introdurti, per capire all'interno di questo millennio e di questa situazione che tu ci stai raccontando che tipo di azione possono fare gli orientatori rispetto alle persone. Persone che, in base al tuo sottotitolo, ridisegnano le regole, ma che spesso non avvertono questa rivoluzione silenziosa, hanno nella testa ancora i paradigmi del secolo scorso

PI - Qui c'è una situazione stranissima, perché la rivoluzione di cui io parlo è una rivoluzione che è già in atto, cioè esiste già. Spesse volte se ne parla come di un fenomeno che deve ancora arrivare, ma non è così. Prendiamo il tema dello smart working. Ci sono molti imprenditori che dicono torniamo indietro. Va bene, buona fortuna per quello che si riuscirà. Però poi contemporaneamente non riesci a trovare le persone. Allora forse ti conviene abbandonare i tuoi vecchi schemi e pensare che la gente chiede cose diverse che tu ti puoi organizzare in molti casi in maniera diversa e forse le tue chances di attrarre quelle persone sono molte di più.

Tornando alla tua domanda, siccome la rivoluzione è già in atto, cioè le persone hanno cambiato assolutamente il loro mindset, il loro approccio al lavoro, noi dobbiamo, io credo, orientare queste persone qui verso tutti quei lavori di cui in Italia c'è un'assoluta mancanza. E qui c'è soltanto veramente l'imbarazzo della scelta, perché il 48% -  sottolineo, il 48% - delle ricerche di personale non vanno a buon fine; è un dato che in Italia noi non abbiamo mai visto e che peraltro non vede nessun altro paese in Europa con queste percentuali, che significano un blocco per lo sviluppo del sistema economico, ma soprattutto un blocco per le persone; perché noi abbiamo questa situazione, ma contemporaneamente abbiamo due milioni di NEET, cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano. Abbiamo un'occupazione femminile che è sottotarata in maniera clamorosa. Non abbiamo immigrazione qualificata: abbiamo circa sei milioni di stranieri in Italia, ma sono tutti relegati su attività a bassissimo valore aggiunto. E poi abbiamo 9 milioni di italiani all'estero, 6 milioni iscritti all'AIRE, più altri 3 milioni non iscritti all'AIRE.

L'anno scorso se ne sono andate 190.000 persone dall'Italia, di queste il 40% sono laureate. Sono fenomeni questi veramente enormi.

Allora a queste persone noi che cosa dobbiamo dire?

Prima di tutto dobbiamo rendere la fotografia del mercato del lavoro. Questo, che è un dato informativo, che sembra banale, è invece decisivo. Cioè in Italia nessuno sta raccontando la verità. Ad esempio,

la verità è che ci sono moltissime attività manuali, moltissime attività tecniche che vengono pagate molto di più, molto meglio, e che sono fonte di soddisfazione molto più alta rispetto a molte attività intellettuali.

Anche su questo c'è un ribaltamento, e questa informazione non viene data nel nostro Paese.

Su questo dobbiamo riflettere in maniera radicale, cioè dobbiamo ripensare in maniera molto profonda alle informazioni che noi diamo. Quindi il primo elemento è un elemento informativo.

Secondo elemento: le famiglie in molti casi dicono al giovane ad esempio che deve cercare un posto di lavoro, “fai quello che vuoi, basta la passione”. No, non è così, non basta la passione. Qui ci sono delle aree del Paese, delle aree di professionalità assolutamente deserte, e ci sono aree iperaffollate.

Terzo elemento: quando noi parliamo di orientamento parliamo spesse volte soltanto dei giovani.

Secondo me questo è un errore, perché quando noi vediamo questi dati di dimissioni spontanee così profonde, dobbiamo pensare che questo significa che le persone hanno bisogno, desiderano, cambiare iter professionale anche in corso d'opera. Ti darò addirittura un dato che io non vedo in giro.

Parliamo dei pensionati.

In Italia ci sono il 15% degli over 70 che lavorano attivamente full time. In Europa questo dato è del 35%.

Ma perché non pensiamo che ci può essere un orientamento anche prima della pensione? Che è un orientamento non ad andare a vedere i lavori in corso o i giardinetti. C'è tanta gente che ha una professionalità, che ha voglia di mettersi ancora al servizio ma non sa come fare. 

Anche questo è orientamento: uno perché servono al sistema economico, due perché le persone che si mantengono attive sono persone che vivono di più e vivono in modo più felice. Quindi noi dobbiamo ripensare all'orientamento pensando anche che non è soltanto il primo orientamento, l'orientamento scolastico, l'orientamento al primo lavoro, ma è un orientamento che - esattamente come l'attività formativa che si prolungherà nel tempo - si deve prolungare nel tempo, addirittura pensando all'orientamento post lavoro, perché il lavoro continui anche durante la pensione.

Guarda che il dato del 35% è un dato europeo: quindi stiamo parlando di un 35% di over 70, attenzione, non persone che vanno in pensione, io sto parlando degli over 70; vuol dire che sono persone che hanno voglia di andare avanti, e che possono andare avanti con profitto. Certo, dobbiamo uscire dal solito schema delle otto ore, cinque giorni su sette, perché dobbiamo pensare a cose più veloci, e ancora una volta dobbiamo giocare non sul potere, ma sulla libertà. E allora, se noi pensiamo il lavoro giocato sulla libertà, ma perché un settantenne che fa l'idraulico non può venire nei tempi che ha a mettere a posto il rubinetto di casa tua? A te interessa che qualcuno lo metta a posto, e oggi se c'è un problema e non ci sono professionisti diventa un problema.

Allora, dobbiamo ripensare in maniera radicale, secondo me, al mondo del lavoro proprio perché questa rivoluzione silenziosa è già in atto e noi dobbiamo ripensare un po' a tutti gli elementi,e quello dell'orientamento è uno degli elementi fondamentali.

VV – Grazie, Paolo, anche perché noi in ASNOR parliamo da tempo ormai di orientamento continuo così come di formazione continua; è parallelo il processo, ed è basilare, ancora prima della formazione. Quindi grazie per aver rafforzato questo concetto di cui parliamo tanto.

Rimaniamo sul tema del silenzio organizzativo; questa grande macchia, se vogliamo chiamarla così, che spesso e volentieri contribuisce a inquinare ancora un po' il tema del lavoro.

Mi veniva in mente il ruolo dell'orientatore su due fronti: cioè da un lato come far percepire alle persone che l'azienda verso cui si stanno rivolgendo ha delle caratteristiche di silenzio organizzativo, di scarsa considerazione delle persone stesse. E come invece orientare e far capire agli imprenditori, ai manager, all'area delle risorse umane - perché anche questo è un tema che dobbiamo forse porci come orientatori - che questi fenomeni contribuiscono al disengagement, a tutto quello che ci hai raccontato, facendo allontanare le persone dalla nostra organizzazione. Bisogna ripensare e dare un valore reale alle persone all'interno dell'azienda, dell'organizzazione.

PI - Guarda, noi quando parliamo di silenzio organizzativo parliamo di una situazione collettiva, mentre il singolo, quando si parla di quiet quitting, si parla in genere di un singolo che si ritrae, che fa il meno possibile. Ecco, il silenzio organizzativo avviene quando questa scelta da individuale diventa collettiva, organizzativa; cioè un'azienda che non è più proattiva, o settori di un'azienda che non sono più proattivi, che di fronte alle varianze di mercato, varianze della clientela, nuove necessità, non reagiscono: guardano verso l'alto della scala gerarchica, aspettano indicazioni, ma non fanno nulla.

Pensiamolo in maniera molto banale.

Siamo in fila alla cassa di un supermercato: c’è fila, c'è una cassa libera, c'è qualcuno che chiacchiera a lato nei corridoi del supermercato, ma nessuna cassiera chiama gli altri colleghi ad aprire altre casse. Quello è un classico momento di silenzio organizzativo. Ci sono degli operatori che vedono un problema organizzativo ma non intervengono; fanno il loro e quindi la cassiera continua a fare il suo mestiere - per cui è assolutamente, come dire, non perseguibile, tra virgolette - ma non c'è un'attivazione. In questa situazione qui, quando c'è un così forte disingaggio, tale per cui le persone fanno il loro mestiere meccanicamente, ma senza metterci la testa e senza attivarsi per rispondere ai bisogni della clientela, c'è un problema di orientamento molto più sottile, che non è semplicemente l'orientamento al mercato del lavoro; qui c'è un tema di orientamento al compito, che non deve essere più inteso come compito del singolo operatore ma come performance di un gruppo.

Questo è un passaggio non banale perché in qualche modo la classica figura dell'orientatore veniva considerata come figura esterna all'organizzazione, quindi istituzionale, che orientava verso il mercato del lavoro. Qui c'è un orientamento ad esempio a valorizzare il proprio potenziale anche rispetto alla stessa organizzazione presso la quale si lavora, quindi senza pensare a dei campi diversi. Questo vuol dire agire sull'attivazione, agire sul coinvolgimento.

Molte volte le aziende, su questo versante qui, per tenersi le persone, che cosa fanno? Non aumentano le retribuzioni - anche perché hanno difficoltà, delle volte anche oggettive - ma lavorano sul welfare, con una situazione paradossale: in questi ultimi dieci anni abbiamo visto un incremento degli investimenti sul welfare e contemporaneamente vediamo un decremento del livello di ingaggio dei lavoratori. È come se tu tanto più investissi sul welfare, tanto più la gente venisse disingaggiata, il che è paradossale.

In realtà la situazione non è così. Il problema è che va benissimo l'investimento sul welfare, e questo è fondamentale perché i salari non crescono. Mattarella in occasione del primo maggio, insieme al tema della salute e della sicurezza, ha ricordato il tema dell'emergenza salari: cioè se io guardo dal 1990 al 2023, i salari mediamente sono scesi in Italia del 2% e in Europa sono saliti del 30%, quindi c'è un dislivello clamoroso.

Va benissimo anche il welfare, perché in qualche modo cerca di parare questa situazione, però il problema è che le persone non rispondono in maniera sufficientemente sintonica con quello che l'azienda vorrebbe, perché non sono coinvolte. Il mio libro cerca di spiegare come fare a coinvolgere le persone, a mettersi in un ascolto attivo, che vuol dire ad esempio, come succedeva una volta con i circoli della qualità, organizzare dei momenti in cui si chiede in maniera strutturata alle persone quali sono le modifiche del loro lavoro, significa coinvolgere le persone nel dare loro informazione, ma anche nel ricevere rispetto ai livelli di servizi. Si tratta di fare una serie di cose che abbiano due elementi come fine, sempre compresenti: da una parte l'incremento della produttività dell'azienda - che non è un incremento di ore lavorate, ma un incremento e una valorizzazione del lavoro di qualità – e dall’altra agire sul benessere delle persone, che non è inteso come semplicemente ti do un po' di welfare in più, che se c'è va benissimo, ma non è questo l'elemento decisivo. Ti do un po' più di benessere perché ti faccio vedere che il tuo lavoro incide effettivamente. Per cui anche il lavoro di quella cassiera del supermercato di cui abbiamo parlato prima può essere un lavoro fondamentale, perché tu sei protagonista in qualche modo del servizio che stai dando.

Magari sembra una piccola cosa detta così, ma per chi fa un lavoro che percepisce senza nessun senso, come un lavoro meccanico, il fatto di potersi percepire come protagonista di un servizio diventa un elemento di maggiore soddisfazione rispetto a una mera passività quotidiana che distrugge ogni iniziativa. Ecco, noi dobbiamo trovare questi meccanismi di attivazione delle persone.

VV - Il che non è semplicissimo, perché da un lato si va sempre più veloce, dall'altro lato c'è questa incombente attività dell'intelligenza artificiale che va a minacciare o ad erodere, almeno inizialmente, quote di mercato del lavoro umano; e dall'altro ci vorrebbe uno sguardo critico, molto profondo, sia su quello che sta cambiando all'esterno che su quello che c'è all'interno dell'organizzazione. Non è sempre facile questa lettura che tu ci proponi, Paolo, perché bisogna avere davvero uno sguardo lucidissimo ed ecco che ancora una volta magari un professionista dell'orientamento, declinato in questa fase di avvicinamento di questi paradossi, di questi mismatch, potrebbe essere decisivo.

PI -  Credo che il numero di orientatori che servirà in Italia sarà nel prossimo futuro sempre più significativo, sempre più alto; e credo però anche che gli orientatori verranno utilizzati sempre di più in maniera “allargata”, quindi sia in termini di quando intervenire che anche del dove intervenire, cioè non soltanto fuori dalle aziende, ma anche dentro le aziende.

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Questi sono due elementi che fanno parte di quella rivoluzione silenziosa di cui il mio libro parla.

VV - E questo è un auspicio e al contempo un suggerimento per i tanti orientatori che stanno cercando una direzione o più direzioni nuove rispetto al ruolo tradizionale di cui parliamo. Volevo fare un ultimo rimando, pescando qualcosa dal tuo precedente libro, “Smetto Quando Voglio”, che a me è piaciuto tantissimo. Quindi volevo richiamare soltanto due concetti che sono molto belli, tornando sul tema della persona. Bisogna far sposare alla persona l'etica del viandante, scrivi tu nel libro. Che cosa significa?

PI - Questo è un rimando a Nietzsche, quindi è un rimando molto importante, molto alto. In qualche modo il viaggiatore, diceva Nietzsche, è colui che non guarda mentre si incammina verso una meta, non guarda che cosa c'è attorno, perché è tutto finalizzato ad andare, a raggiungere nel tempo più breve possibile la propria meta. Il viandante, invece, è colui che trova soddisfazione nell'andare durante il viaggio, e durante il viaggio la soddisfazione la trova proprio nel considerare tutto quello che c'è attorno, nel trovare gioia in quello che trova lungo il suo percorso. Ecco, anche noi, quando pensiamo al lavoro, avevamo in testa una volta il viaggiatore, cioè colui che si poneva un obiettivo di successo per cui a quell'obiettivo era disposto a sacrificare tutto perché doveva arrivare quanto più possibile a raggiungere quella meta. Pensiamo alla “Milano da bere”, gli Yuppies di 30 anni fa, questi giovani che dovevano assolutamente arrivare velocemente a tutti i costi. Oggi il mindset è cambiato in maniera radicale, anche su questo c'è stata una rivoluzione assoluta.

VV - E quindi al centro c’è la bellezza del viaggio, anche perché soprattutto i giovani fanno fatica a proiettarsi nel futuro rispetto a 30-40 anni fa; per cui perché non godersi il viaggio e viverlo nonostante tutte queste complessità e questi paradossi che tu hai già raccontato anche in altri libri? Chiudiamo ancora con un rimando a “Smetto quando voglio”: c'era un capitolo che tu hai intitolato “Che fine ha fatto il futuro”. Allora ti chiedo che fine ha fatto e che fine farà il futuro del mercato del lavoro?

PI -  Io sono molto molto ottimista ad esempio verso l'intelligenza artificiale; credo però che noi non dobbiamo abdicare dall'avere spirito critico. Io sto scrivendo molto, perché ho un po' una sensazione di uno spirito critico che viene meno, e invece io vorrei dare il mio piccolissimo contributo a far sì che questo non avvenga.

VV - Grazie a Paolo Iacci per questa bella chiacchierata.

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Vito Verrastro

Vito Verrastro

Orientatore Asnor, Direttore responsabile del Magazine l'Orientamento, Giornalista, Founder di Lavoradio.

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