- 244
- 5 minuti
- 2/10/2024
LET'S TALK | Puntata 3: Intervista a Giulio Xhaët, Digital Strategist
Giulio Xhaët è un Digital Strategist che organizza progetti di cultura digitale, gestione del cambiamento, sviluppo dei talenti per le aziende. È un musicista, un rocker, ama scrivere canzoni, scrive romanzi e saggi tra cui “Da Grande. Non è mai troppo tardi per capire chi potresti diventare”, un libro scritto per Sonzogno pieno di domande generative, a cui proveremo a dare qualche risposta nello spazio di Asnor.
Puntata 3 – Ospite: Giulio Xhaët, Digital Strategist. Lo intervista Vito Verrastro, Direttore responsabile del magazine l’Orientamento.
Oppure guarda la videointervista integrale
VV - Quanto è difficile diventare grande? È più difficile rispetto al passato? È più sfidante e più complesso?
GX - Il punto è che abbiamo più opportunità e cose che si possono fare attorno a noi, il digitale in questo è stato sempre più dominante. Abbiamo potenziali contatti e interconnessioni con chiunque nel mondo, attraverso i social media, le piattaforme digitali, ora è tutto a portata di un click o di un touch rispetto a tantissime opzioni di vita; il che è un bene da un certo punto di vista ma in realtà ci porta anche tanta ansia perché è provato in neuroscienza che quando abbiamo troppe scelte davanti, tante scelte, tendiamo a bloccarci. È il paradosso della troppa scelta. Hanno fatto anche un esperimento da questo punto di vista: lo studio della marmellata, che ha fatto una ricercatrice molto giovane, tanto giovane quanto geniale; ha fatto una cosa molto semplice, è andata in un supermercato, ha messo su uno stand con diversi tipi di marmellata. Le persone potevano andare, c'erano sei gusti di marmellata, quelli tradizionali, quelli canonici. Molte persone si fermavano e di questi 3 su 4 acquistavano, facevano una scelta. Poi ha fatto la stessa cosa, stesso supermercato, un mese dopo; stesso stand, ma in quel caso le marmellate erano diventate 24. 24 gusti anche molto particolari. Cosa succedeva? Che un numero maggiore di persone erano incuriosite dalle opzioni di scelta, ma solo uno su dieci poi si portava a casa la marmellata.
Cosa vuol dire? Che la vastità di scelta confonde. Avere tanta opportunità di scelta porta ansia. E anche nel mondo del lavoro porta le persone a dire tutti gli anni (o ogni sei mesi): ma sto facendo la cosa giusta? Aspetta, forse mi sto perdendo qualche cosa, e infatti nelle aziende, soprattutto quelle grandi, quando vado a parlare con i direttori del personale, lo spauracchio è i 20-25enni che ogni sei mesi vogliono cambiare ruolo ma l’azienda non può farlo facilmente: questa cosa è quindi sfidante anche per l'azienda.
VV - Il tema oggi non è magari neanche solo quello dei 20-25enni, perché leggiamo di continuo che tanti over 40 e over 50 pensano di cambiare lavoro, cambiare posizione, riacquisire il benessere, un po' di libertà personale; insomma, questi sono i macro temi che stiamo vivendo e che ci dicono che sul tema dell'orientamento - qua siamo nella casa degli orientatori - oggi abbiamo tutti un po' più bisogno rispetto a prima, giovani e meno giovani.
GX - Prima di arrivare qua da te ero al telefono con una responsabile della formazione di una grande azienda; ha circa 50 anni e ha deciso - mi chiedeva anche un po' di consigli – di rimettersi in pista e fare qualcos'altro, dopo 15 anni in azienda. Darà le dimissioni a settembre perché vuole rimettersi in gioco e non ha neanche un piano B molto chiaro; c'è questa cosa interessante, che la gente non dico che vada all'avventura ma sente questa spinta. Con il nostro comune amico, Niccolò Andreula, non a caso abbiamo lanciato questo progetto, un po' per divertimento, un po' per spirito di esplorazione, Find Your Flow, un ritrito di due giorni per chi vuole cambiare. Immaginavamo di avere dei ventenni, trentenni, e invece per la prima edizione abbiamo avuto trenta-quaranta- cinquantenni che sono arrivati in questo questo spazio perché volevano rimettersi in gioco. Ci sono molti spazi, molte cose che si possono fare e a tutte le età, che è il sottotitolo di Da Grande, non è mai troppo tardi per capire chi potreste ancora diventare.
VV - Da Grande racconta di persone comuni come Sara, Vito, Nicolò (che abbiamo già salutato), Anna e Marco (che non sono quelli della canzone di Lucio Dalla) ma racconta anche di Nadal, di Van Gogh, di Whitman, di grandi personaggi. Che cosa hanno in comune persone che possiamo incrociare in mezzo alla strada e grandissimi talenti, nel tuo libro?
GX - Sono tutte persone che hanno saputo gestire e imparare dei loro fallimenti; tutte persone che compiono qualcosa di interessante e poi sono stati felici, gaudenti della vita. Non sono persone che non sbagliano mai, anzi. Le persone che non sbagliano mai evidentemente non rischiano, ma non escono dalla famosa zona di comfort; il punto è che se non rischi qualche cosa e non ti prendi qualche pallone in faccia, le cose più importanti della vita fatichi a impararle davvero.
Infatti se andiamo a prendere dei numero uno nel mondo dello sport, dell'arte, dell'imprenditoria, della scienza e anche delle persone che sono contente del lavoro che fanno, del loro percorso e delle loro attività e hanno avuto dei successi interessanti, noti che dietro un successo ci sono un sacco di errori, un sacco di sbagli, un sacco di fallimenti; però, ed è questo ovviamente il punto importante, hanno imparato, hanno avuto l'umiltà di imparare dei loro fallimenti dicendo cosa ho sbagliato? Perché molte persone pensano di fare sempre il meglio e di non essere capite, ma la realtà quando falliamo abbiamo la grande opportunità di capire qualcosa di importante su noi stessi. Io in primis ho preso delle cantonate, continuo a prendere pali in faccia, e però da lì imparo perché è un po' un master di vita che come dico sempre fa star male, perché fallire non è bello, fa stare male, però almeno è gratis ed è utile.
VV - Nel libro li racconti i tuoi fallimenti, almeno i macro-fallimenti, come dovremmo fare un po' tutti per allenarci a raccontare quella parte che poi ci garantisce di imparare ogni volta. E su questo suggerisco di leggere anche la biografia di Elon Musk, perché lo conosciamo tutti per i suoi grandissimi enormi successi, ma dietro ci sono centinaia e centinaia di fallimenti che ovviamente non vediamo, ma che sono serviti per progettare le grandi cose che tutti sappiamo. A proposito di pali in faccia, di fallimenti, alcuni errori che tu citi nel libro e che possono essere un freno al mettersi in gioco di cui parlavamo prima, sono paragonarsi agli altri, la sindrome dell'impostore e sentirsi costantemente in svantaggio.
GX – C’è tutto questo ma una risposta esaustiva durerebbe ore. Prendiamone uno, il punto del paragonarsi agli altri. Si collega a ciò di cui parlavamo prima, al perché nel mondo del lavoro (ma non solo) le persone sentono l'ansia che sale, perché ci sono tantissime opzioni e queste opzioni sono dovute dal fatto che io mi paragono, mi confronto più facilmente alle altre persone perché online sono in constante contatto col polso del mondo.
Quando eravamo ragazzini ci confrontavamo con chi? Con la nostra compagna di classe, con le persone della nostra cittadina, al massimo della città, al limite con qualcuno che vedevamo in televisione ma che ci sembrava comunque lontano, alla quale non avevamo accesso. Invece ora possiamo interagire, avere accesso e vedere delle persone che sembrano simili a noi, con cui noi ci possiamo identificare, e che tendono a spostare sempre l'asticella verso l'alto, perché poi sui social ci sono persone che si mostrano felici, vincenti, di successo. E allora io mi sento piccolo, inutile, non all’altezza, perché è tutto così depotenziante.
Da questo punto di vista cito spesso Sartre, che diceva “l'inferno sono gli altri” perché Sartre diceva di aver paura a paragonarsi agli altri, al loro sguardo. Da questo punto di vista, i social media possono diventare degli “amplificatori di inferni”, perché sono amplificatori di altri. Ecco, qua il gioco è invece sfruttare i social media per il bene che possono fare, in particolare per il fatto che possiamo trovare degli spiriti affini o come piace chiamarli partner in crime, dei compici di vita e di lavoro con i quali aiutarsi, incontrarsi, verificare interessi in comune, fare delle cose insieme. Allora in quel caso i social media e il digitale da amplificatore di inferni diventano amplificatori di salvezza. E non è retorica, io ci credo tantissimo in questa cosa, la vivo quotidianamente. Non è semplice, ma si può fare.
Un passaggio veloce sulla sindrome dell'impostore, visto che l’hai citata. Detta così sembra una malattia, una cosa strana; in verità passiamo dei momenti, dei periodi della vita in cui tutti o quasi ce l'abbiamo, anzi è forse sano provarla, un pochino. Accade quando noi pensiamo che una cosa sia andata bene ma perché sono stato fortunato, o non sono abbastanza. Ci sono momenti della vita in cui magari perdiamo un po' di fiducia, un po' di autostima, e cominciamo a pensare che in realtà non ci meritiamo le cose che abbiamo. Siamo esseri umani, e quindi come tali un po' di ansia c’è, ma possiamo farcela amica, anche quando proviamo la sindrome dell'impostore: possiamo infatti sfruttare quel momento perché si torna molto umili, e con l'umiltà si cresce. Se ti senti così, sfruttala per imparare ancora di più e per metterti in gioco. Nel libro cito il caso di Amy Caddy, una ricercatrice diventata famosa per il suo TEDx; da piccolina ha avuto un incidente che le ha fatto perdere un po’ del quoziente intellettivo, e per recuperare ci ha messo un sacco di tempo. Quando l'hanno chiamata in un’università prestigiosa a fare delle lezioni lei pensava di non meritarsi quel posto; è andata dalla sua tutor e le ha detto che se ne sarebbe andata a casa “perché non sono abbastanza”. La sua tutor la rassicurò dicendo che avrebbe dovuto restare perché la meritava tutta, quella situazione e quell’opportunità. E se pensi di non meritartelo, “fake it until you make it”: fingi di esserlo finché non lo senti, che è il lato buono del fingere. Cioè fingi con te stesso di sentirlo, perché poi arriverà. Non sto dicendo di fingere di essere qualcun altro, ma a livello psicologico è una leva positiva per la sindrome dell’impostore.
VV - Aiuta, aiuta moltissimo sicuramente. Un contrappasso rispetto al rischiare e andare incontro ai fallimenti, spesso è rimanere fermi. Che forse è l'unica cosa da non fare oggi, perché si va incontro a quella che tu un po' definisci “zona arida”, che ognuno di noi nel corso della sua vita, della sua carriera attraversa; è forse un territorio da lasciare un po' in disparte e da attraversare il prima possibile?
GX - Sì, però voglio fare un appunto su una cosa a cui tengo molto: l'unica cosa che non cambia è il cambiamento, lo sappiamo. Però sembra che dobbiamo essere sempre in costante movimento anche noi; frenetici, mai stare fermi. Io ultimamente dico che il relax, il divertimento e l'introspezione sono delle cose che ci servono assolutamente per migliorare; ci sono dei momenti in cui devi correre, dei momenti in cui devi un attimo rilassarti, rallentare e fermarti.
Anche sulla famosa zona di comfort di cui parlavo prima; ci dicono esci, ampliala, ma io intanto dico “godetevi la vostra di zona di comfort, stateci lì e godetevela”. Ti faccio un esempio familiare: da ragazzino, i miei role model erano mio padre e mio zio: mio padre è ex olimpionico di sci, il ragazzo più ambito della città, delle ragazze, e mio zio è un casinista impenitente che organizzava delle feste folli. Peccato che io fossi un po' introverso, da piccolo, e visto che volevo imitare i miei idoli, fingevo di essere estroverso; mi sono iscritto ad una scuola di teatro per estroversi creata dal mio cervello. Il punto è che però fingevo di essere sempre qualcosa che non ero, e dopo un po' questa roba mi ha fatto stare malissimo. Quindi una cosa è uscire ogni tanto dalla zona di comfort, una cosa è rinnegare la tua natura in maniera sistematica. Questo non fatelo perché è contro natura, controproducente, vi fa solo stare male. Quindi accettatevi anche per quello che siete.
VV - Assolutamente d'accordo, anche perché lo dicevamo, benessere e relax sono un po' le componenti che cerchiamo tutti, come quell'equilibrio vita-lavoro che dovrebbe essere patrimonio di tutti noi, quindi hai fatto bene a sottolinearlo. Se dovessi dare un consiglio soprattutto ai giovani oggi, diresti ancora di seguire i propri sogni, le proprie tue passioni?
GX - Innanzitutto, soprattutto i ragazzi giovani, la maggior parte ha un problema a capire quali sono le passioni e gli interessi; magari sanno cosa non piace, ma sapere cosa piace è più complicato. Le passioni hanno un quid in più, ma bisogna individuarle. E poi, magari hai talento quando tu sei molto bravo a fare qualche cosa, ma non è detto che quella roba ti piaccia poi così tanto. O hai la passione, ti piace tanto fare una roba ma magari non hai tutto quel talento. Se sei una persona molto ambiziosa, hai le idee chiare e vuoi fare le cose in poco tempo, ok, dai una chance al talento, poi magari avrai fortuna e comincerà a piacerti quella cosa. Insomma, è difficile. Certo, se tu fai qualche cosa con una vera passione imparerai più facilmente degli altri. Io volevo fare il cantante e il chitarrista ma non sapevo tenere il tempo con la chitarra e avevo la voce che sembrava una cornacchia, all'inizio, e mi prendevano anche in giro. Però mi piaceva così tanto che ho imparato e mi sono sbattuto il triplo degli altri arrivando poi a non essere una voce pazzesca, un chitarrista incredibile, ma a aver sviluppato un mio stile. E quello mi ha permesso di fare delle cose interessanti. Anche perché se volete diventare davvero bravi, bravi e super eccellenti, il talento non basta. Hanno fatto un esperimento negli anni ottanta intervistando centinaia di premi Nobel, scienziati formidabili, imprenditori pazzeschi, artisti, gente che era proprio un numero uno nel loro campo; hanno chiesto tra una trentina di caratteristiche tra cui la creatività, l'empatia, il talento, la capacità di prendere decisioni, qual è l'elemento che ha inciso di più sul successo? La caratteristica maggiore era il fatto che loro erano consapevoli che mentre facevano quella cosa se la godevano, gli piaceva, gli piaceva fare quella cosa.
Prendi Alessandro Barbero: all'inizio non era un grande talento, per sua ammissione era uno storico abbastanza mediocre anche come divulgatore; ma lui si divertiva come un matto, ed è diventato un numero uno. Dico sempre questo: il talento è sopravvalutato, il divertimento è ampiamente sottovalutato.
VV – Concordo; parlando con mio figlio, gli dico spesso che in tutto quello che faccio, se non c'è una piccola componente di divertimento, tendo a non farlo, perché la farei male. A proposito di passioni che arrivano arrivano tardi, c'è nel libro la bellissima storia di Van Gogh. Non vi dico nulla perché è veramente spettacolare, eccezionale e farà rimanere tutti a bocca aperta perché non ci aspetteremmo mai che un genio infinito dell'arte, della pittura come Van Gogh, abbia avuto una vita invece così abbastanza travagliata dal punto di vista della ricerca del proprio io, del proprio purpose e delle proprie passioni. E ce ne sono tanti di questi esempi.
Tornando al tema cambiamento e scenari, sempre così mutevoli oggi, sempre così ambigui. Tu dici che bisogna imparare a ragionare più nel breve termine che nel medio lungo termine, perchè?
GX – Sì, poprio perché le cose possono cambiare: io posso cambiare in entusiasmo, in curiosità, in esperienza come persona; ricordiamoci che andare alla ricerca del proprio scopo, del proprio purpose, in parte è un lavoro introspettivo, e lì sul libro ci sono le domande generative che ci aiutano. Ma poi buona parte è un lavoro esperienziale: fare delle esperienze diverse che non avrei mai fatto in altri contesti e scoprire di dire, fare, essere anche questa persona. Lì è interessante. Per fare questo la pianificazione va bene, ma a lungo termine possiamo farla come gioco mentale, cioè sapendo che molto probabilmente mentre io perseguirò la mia strada le cose cambieranno e quello che era il mio obiettivo a lungo termine sarà già cambiato, perché è cambiato il contesto. Invece cercare di essere coerenti e fedeli con degli obiettivi più a breve termine, quello è importante. È come dire: aspetta che voglio imparare a giocare a scacchi e diventare il campione numero uno al mondo, mentre imparo l'intelligenza artificiale gioca meglio del migliore campione di scacchi e quindi forse ha meno senso; un esempio un po' stupido ma per capirci: quando cambia il contesto dovremo essere pronti a cambiare noi, nel medio e lungo termine.
VV - E da questo punto di vista parli di un concetto molto bello, per me affascinante che è andare “a caccia di scintille”, esponendosi alla vita, alle esperienze, a cose che magari non pensavamo di fare, e invece ci proviamo, e da lì vengono fuori “l’unione dei puntini” di Steve Jobs, questo nostro identikit che può rivelarsi dopo un po’. Come si fa ad andare a caccia di scintille?
GX - Questa è la parte esperienziale di cui parlavo prima. Nel libro cito tre attivatori di scintille: i custodi delle scintille, ovvero le persone che possono farci da mentore, persone che hanno delle esperienze ma che possono anche metterci in contatto con altre persone, che possono metterci dei banchi di prova e farci conoscere nuovi contesti; il tema dell'esperienza come viaggio, in senso lato, in senso ampio: ho visto esempi di persone che sono profondamente cambiate dopo un viaggio, e non è una frase fatta; trovare se stesso attraverso un viaggio è un pezzettino di noi stessi che possiamo trovare. Se sei un tipo molto metodico hai bisogno di un viaggio destrutturante, che ti faccia scombinare le carte della tua pianificazione quotidiana. Se sei un tipo che vive alla giornata hai bisogno di qualcosa di ristrutturante, che ti dia un metodo sulle cose. Infine gli oggetti, le opere: a volte può essere rivelatoria una scintilla, un libro che ti cambia la vita. Io ho avuto dei libri che mi hanno letteralmente cambiato e fatto rivedere le cose in un certo modo. Ci sono esempi di quel ragazzo che non sapeva chi fosse, poi ha provato a suonare la batteria e attraverso il rapporto con lo strumento ha trovato se stesso e poi è diventato un musicista, un giornalista musicale.
Ma c’è anche una meta scintilla, la scintilla delle scintille, che è la curiosità: sto iniziando a scrivere un libro che molto probabilmente sarà sulla curiosità; curiosità deriva dal latino cura, la parola cura, la parola cura latina è una di quelle parole che sono dei numeri primi lessicali cioè delle parole che non hanno mai cambiato né forma né significato. E cura, che vuol dire sapere, ma anche prendere cura di una persona, ha il derivato curiosità. Vuol dire sapersi prendere cura di se stessi al meglio. Le persone che continuano a essere curiose a tutte le età, si prendono cura meglio della loro vita e di quelle degli altri. E poi è affascinantissima questa scintilla perché ognuno si fa incuriosire da cose diverse dagli altri. Come si fa a allenare la curiosità? Dipende che tipo di curiosità hai dentro. Ma non spoileriamo altro...
VV – In attesa della la prossima pubblicazione, faccio un salto nella precedente che è “Contaminàti”, altro libro che secondo me ha cambiato la visione di tante persone e di tanti lettori; meglio puntare ad un'iperspecializzazione, oggi, oppure aprirsi ad un ragionamento più a rete, che va da prendere frammenti e scintille da diversi ambiti?
GX - Se avete seguito fin qua, sapete dove propendo come risposta. La provo a argomentare un po' meglio: non sto dicendo che la specializzazione di per sé sia dannosa, brutta, inutile; ci sono certe professioni che vivono di specializzazione. Se tu fai il chirurgo, il medico, l'avvocato e non ti specializzi non puoi proprio professare e operare. Però il punto qual è? Innanzitutto che rispetto al passato è più importante avere ecletticità e varietà di interessi, di saperi, di competenze, perché quasi tutte le professioni in realtà poi cambiano; quindi chi è che vince nella professione? Chi, oltre a saper fare la sua professione in maniera corretta, ha anche qualcosa che arriva da altri mondi; sono loro che poi cambiano più facilmente le regole del gioco, che diventano qualcos'altro, che sono riformulati, che hanno cambiato loro vita. Non è necessario diventare tante cose nella propria vita, ma arricchirsi non solo in profondità ma anche in varietà, per propagazione. E da questo punto di vista, anche gli specialisti hanno un valore aggiunto: sono un avvocato ma sono affascinato dall’antropologia, per esempio, e guarda caso quelle persone lì sono quelle che nel loro lavoro hanno quel quid in più a livello umano ma anche a livello professionale, molto spesso. Io in generale adoro le persone che sono “contaminate” (qualcuno le chiama multipotenziali), che sono in grado di attivare diverse caselle di conoscenze e di competenza. Quello non vuol dire fare multitasking, che non funziona. Vuol dire “ho un progetto di vita importante, e per quello attingo da tanti mondi”.
VV - L'ultima curiosità è quella sulle domande. Farsi e fare domande generative è diventata ormai una vera e propria competenza?
GX – Sì, ho mutuato questa risposta dalla scienza della complessità, che molto spesso usiamo nei nostri corsi: prendere decisioni in situazioni ambigue, complesse, ci pone di fronte alle domande generative che diventano domande sul proprio purpose, cioè capire davvero dentro cosa che ti smuove, qual è il tuo scopo, quali sono le tue vocazioni. E nel libro ci sono tante domande; ognuno può farsi delle domande molto specifiche su di sé, ma ci sono anche delle domande che possono essere un po' più trasversali.
Ne cito 11, che vanno a comporre l’esercizio finale che è un personal purpose canvas vero e proprio: lo usiamo tantissimo nelle aziende, con persone di tutte le età. Una è “ma qual è l'ultima volta in cui si è stato stato davvero felice?” Emozionalmente, quando cammini un po' un metro da terra. Altra domanda, quella più importante, è “quante persone possiamo diventare nei prossimi dieci anni?”
VV - Quante? Infinite?
GX - No, infinite no, perché vuol dire che non abbiamo tempo infinito. Però il punto è: anche se continui a fare la stessa cosa, anche se più o meno la tua vita rimane quella, la possibilità di arricchirti c’è sempre; quindi non continuare a fare le cose identiche, altrimenti finiamo come quelle persone che sono arroccate un po’ nella loro tracotanza; che magari hanno fatto una carriera in maniera tradizionale e che dicono “Ho trent'anni di esperienza in questo settore”, e io penso che spesso hanno un anno di esperienza vera ripetuto 30 volte; penso che quelle persone non sono mai diventati nessun altro, e mi spiace.
VV - Il classico abbiamo fatto sempre così, no? Che è la frase killer che uccide ogni cambiamento.
Grazie, Giulio, per il confronto su questi temi così complessi su cui nessuno ha né bacchette magiche né risposte assolute, ma solo tante domande che ci poniamo ogni giorno. Domande che ci aiutano a dissipare un po' questo filo così ingarbugliato e spesso inestricabile che genera ansia, come dicevamo all'inizio di questa conversazione.