Venerdì 23 Maggio 2025

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  • 22/5/2025

Cosa resta di umano? L'orientamento nell'era della tecnica e dell'IA

In un tempo dominato dalla tecnologia e dalla standardizzazione, anche l’orientamento sta vivendo una trasformazione con l’introduzione di strumenti e metodologie sempre più sofisticate: test psicocologici, piattaforme digitali, algoritmi per l'analisi dei dati e, più recentemente, l’intelligenza artificiale. Sebbene questi strumenti risultino molto utili per il nostro lavoro, c'è una questione che non possiamo ignorare: la tecnica, senza un solido approccio pedagogico ed etico, rischia di trasformarsi in una pratica vuota, che perde di vista il valore umano e personalizzato dell’orientamento. A cura di Annie Pontrandolfo, Presidente Asnor.

La tecnica come strumento, non come fine

Per tecnica intendiamo un insieme di strumenti che possiamo usare per migliorare l’efficacia del nostro lavoro: test psicometrici, bilanci di competenze, piattaforme digitali, software per la gestione dei percorsi. Tutti strumenti utili, purché mantengano il loro ruolo: essere mezzi al servizio della relazione orientativa, non il cuore dell’intervento.

Perché quando la tecnica diventa il centro dell’azione, rischia di ridurre l’orientamento a una sequenza standardizzata e impersonale. È il caso, ad esempio, di chi si affida unicamente a un test per “individuare” la vocazione di uno studente, oppure a una dashboard per “monitorare” le possibilità occupazionali di un adulto. In questi casi, il rischio è confondere il dato con il significato, il risultato con la persona.

La tecnica, in sé, non pensa, non ascolta, non comprende. È utile solo quando si inserisce all’interno di un progetto educativo consapevole e partecipato. Deve essere scelta, adattata, contestualizzata e interpretata alla luce di ciò che sappiamo, vediamo e sentiamo della persona che abbiamo di fronte. Per intenderci, uno studente delle scuole superiori alle prese con l’ansia da scelta post-diploma, si sottopone a un test di orientamento. Il test suggerisce ingegneria. Ma quello studente ama la scrittura, ha una storia familiare complessa e vive un conflitto interno tra aspettative e desideri. Senza una lettura profonda e dialogata dei risultati, quel test rischia di diventare una gabbia. La tecnica deve illuminare possibilità, non chiuderle.

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L’approccio come atto educativo

L’approccio non è un dettaglio metodologico: è la visione del mondo che guida ogni nostra azione professionale. È ciò che ci fa scegliere un certo strumento, un certo linguaggio, un certo atteggiamento. È la bussola che orienta l’Orientatore. Avere un approccio significa porsi domande prima di agire: Chi ho davanti? Qual è la sua storia? In che contesto vive? Quali risorse e vulnerabilità porta con sé? Significa uscire dalla logica dell’efficienza a tutti i costi e rientrare nella logica della significatività.

Un buon approccio è sempre riflessivo, relazionale, aperto. Non è una tecnica in più, ma una postura professionale ed etica. È il presupposto per costruire consapevolezza. Pensiamo a un adulto in fase di transizione lavorativa che accede a un bilancio di competenze digitale. Il sistema produce un report dettagliato. Ma senza un confronto con un orientatore che sappia leggere quei dati alla luce delle esperienze, delle emozioni e delle paure dell’individuo, quel report rischia di restare sterile. L’approccio, invece, permette di trasformare quei numeri in narrazione, quel bilancio in progetto.

La tecnica ci aiuta a procedere, ma è l’approccio che ci dice dove andare.

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Rischi e responsabilità per gli orientatori

Gli orientatori hanno la responsabilità di integrare la tecnica con una riflessione etica e pedagogica. Un orientamento che si riduce a tecniche automatiche rischia di diventare una pratica disumanizzante. L’approccio deve sempre precedere e guidare l’utilizzo degli strumenti, perché solo così l’orientamento rimane una pratica trasformativa, educativa, capace di generare senso. Se smarriamo l’approccio, smarriamo la nostra identità professionale. Ogni colloquio, ogni silenzio ascoltato, ogni dubbio accolto è un gesto di cura che nessun algoritmo potrà mai replicare. Dobbiamo avere il coraggio di rallentare, di fare domande profonde, di costruire significati insieme. La tecnica non basta: ci vuole visione, responsabilità, presenza. Restituire centralità all’approccio significa restituire umanità al nostro lavoro. E in un mondo che corre veloce, questa è forse la scelta più radicale e necessaria che possiamo fare.

In un tempo in cui la rapidità è spesso scambiata per efficacia, dobbiamo rivendicare il valore della lentezza, dell’ascolto autentico, della riflessione condivisa.

L’orientamento è un processo trasformativo, non un prodotto da confezionare. Richiede tempo, cura, presenza. E richiede orientatori capaci di tenere insieme metodo e significato, tecnica e umanità. È importante che ogni professionista dell’orientamento si interroghi non solo su “cosa” fa, ma su “perché” e “per chi” lo fa. Solo così possiamo restare fedeli alla missione educativa che ci guida: accompagnare le persone a vedere possibilità dove prima vedevano ostacoli, a leggere il futuro come una storia che vale la pena scrivere con le proprie mani.

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