Martedì 18 Novembre 2025

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  • 18/11/2025

Mobbing e ricollocamento professionale: come l'Orientamento aiuta nelle crisi lavorative

Come riconoscere il mobbing, affrontare le transizioni lavorative e usare l’orientamento per ricostruire carriera e fiducia professionale. A cura di Emanuele Di Pietro, Orientatore Asnor ed Esperto HR.

Mobbing: il nemico silenzioso della carriera

Il mobbing non è una lamentela generica: è un processo sistematico, prolungato, spesso invisibile ai più. La giurisprudenza (Cassazione, Sez. Lavoro, Sentenza n. 33639/2022) lo definisce come una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che con intento vessatorio vengono attuati in modo sistematico e prolungato nel tempo, con l’obiettivo di emarginare il dipendente.

Chi subisce mobbing perde lucidità professionale, autostima e perfino capacità decisionale nelle scelte di carriera.

Qui l’Orientatore deve diventare una bussola, non un terapeuta, e nemmeno un avvocato, ma una guida che rimette la persona al centro, ricostruisce competenze schiacciate dall’ambiente e apre percorsi alternativi, dentro o fuori l’azienda.

Chi è l'Orientatore e cosa fa

Ricollocamento: da crisi a ripartenza

Il ricollocamento professionale non è un “servizio di consolazione”, ma un intervento strategico che si colloca nel punto più fragile della vita professionale di una persona: il momento in cui ciò che sembrava stabile - identità lavorativa, routine e relazioni - si incrina all’improvviso.

Nei licenziamenti collettivi (L. 223/1991), nelle riorganizzazioni aziendali o nelle dismissioni di reparti, l’Orientatore non può essere un semplice traghettatore verso una nuova candidatura.
Diventa un facilitatore di rinascita professionale, chiamato a gestire non solo la tecnica, ma la trasformazione.

Accompagnare una persona in transizione significa andare oltre il bilancio di competenze: significa comprendere perché quel lavoratore è stato escluso, quali dinamiche ne hanno eroso la fiducia, quali ferite porta con sé e quale direzione professionale sia davvero sostenibile per il suo futuro.

Le persone espulse da un contesto lavorativo non arrivano solo con un CV da sistemare, ma con:

  • narrazioni spezzate;
  • autostima compromessa;
  • identità professionale indebolita;
  • paura di sbagliare nuovamente ambiente.

Se non si lavora su questi aspetti, il rischio è quello di “inserire” la persona in un contesto che riproduce esattamente ciò che l’ha fatta crollare.
Per questo il vero ricollocamento è riparativo, non solo funzionale.

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Un caso reale: “Fuori da lì, io non valgo abbastanza”

Ricordo un caso che ho gestito di una persona che chiameremo Marta, 49 anni, esperta amministrativa, che lavorava da molti anni nella stessa azienda.

Un giorno viene convocata per una riorganizzazione: il suo ruolo è “superato”, non più in linea con la nuova struttura. Nessuna colpa, nessun richiamo, solo un taglio.

Quando arriva in orientamento porta con sé un CV fermo al 2012 e una convinzione:
“Fuori da lì, io non valgo abbastanza.”

Nel percorso emergono tre elementi chiave:

  1. Non è il lavoro il problema, ma il contesto.
    Negli ultimi anni era stata gradualmente isolata, esclusa da riunioni e decisioni.
  2. Il suo ruolo era molto più ampio di quanto lei stessa credesse.
    Gestiva fornitori, clienti, pagamenti, micro-contabilità, archivio documentale, ma non li aveva mai chiamati “competenze”.
  3. Aveva paura di affrontare colloqui dopo tanti anni.
    Una paura normale, ma mai nominata.

Il percorso di ricollocamento le ha permesso di:

  • ricostruire la sua narrazione professionale;
  • valorizzare competenze sommerse;
  • esplorare nuovi settori compatibili con il suo profilo;
  • allenarsi con colloqui simulati;
  • evitare contesti con dinamiche tossiche simili a quelle che l’avevano indebolita.

Dopo tre mesi, Marta firma un contratto come impiegata contabile in una PMI con un ambiente realmente inclusivo. Quando ci risentiamo mi dice:

“Non ho trovato solo un lavoro. Mi sono ritrovata io.”

Ed è esattamente questo che fa il ricollocamento quando viene svolto bene,
non cura solo la carriera ma la persona.

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Cultura aziendale: molto più dei valori sul sito web

Ogni persona porta con sé l’idea che un’azienda sia come appare all’esterno. Tuttavia, chi ha lavorato nelle risorse umane o come Orientatore lo sa: la cultura vera si percepisce nei corridoi, nelle chat interne, nel modo in cui si gestiscono ferie, malattie ed errori.

L’Orientatore deve essere un decodificatore culturale; deve aiutare l’utente a capire se un ambiente è sano, ambiguo o tossico. Ci sono indicatori precisi:

  • turnover elevato;
  • leadership contraddittorie;
  • comunicazione opaca;
  • promesse non mantenute.

In un mondo che pretende “engagement” ma spesso non offre sicurezza psicologica, la nostra figura è l’unica che può insegnare alle persone a leggere le aziende, non solo a entrarci.

Oggi, l’orientamento non è più una bussola occasionale, ma una competenza strutturale per affrontare un mercato segnato da burnout, ristrutturazioni, culture tossiche e transizioni continue.

È un lavoro che richiede uno scambio costante di informazioni e volontà tra chi svolge l’orientamento e chi usufruisce del servizio, poiché la collaborazione - non sempre scontata - è fondamentale da entrambe le parti.

Il lavoro è un luogo, ma la carriera è un percorso. E chi sa orientare, conosce questa differenza.

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Emanuele Di Pietro

Emanuele Di Pietro

Orientatore Asnor, Esperto HR

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