Sabato 19 Aprile 2025

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  • 11/4/2025

LET'S TALK | Puntata 7: Intervista a Riccardo Maggiolo

Oggi, Riccardo Maggiolo è il nostro ospite per raccontarci l'ultimo lavoro editoriale che si chiama “Lavorare è da Boomer” con un sottotitolo esplicativo: dal culto alla cultura del lavoro. È un libro provocatorio nel titolo e racconta con analisi, esempi, dati e metodi uno scenario che sta profondamente cambiando.

Puntata 7 – Ospite: Riccardo Maggiolo, giornalista, scrittore fondatore di JobClub, una startup che ha permesso a migliaia di persone, soprattutto giovani, di cercare e trovare lavoro insieme. È speaker, formatore, consulente, scrive per HuffPost e SenzaFiltro, autore di “Lavorare è da Boomer”. Conduce l’intervista Vito Verrastro, Direttore Responsabile del magazine l’Orientamento.

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Oppure guarda la videointervista integrale

VV – Benvenuti ad una nuova puntata di Let's Talk, rubrica sulla cultura dell'orientamento voluta da ASNOR, Associazione Nazionale Orientatori, attraverso il magazine L'Orientamento che ho il piacere e l'onore di dirigere. Ospite di oggi, di questa nuova puntata, è Riccardo Maggiolo, benvenuto.

RM - Buongiorno, grazie mille Vito e un saluto a tutti.

VV – Riccardo Maggiolo è giornalista, scrittore, è stato fondatore di JobClub, una startup che ha permesso a migliaia di persone, soprattutto giovani, di cercare e trovare lavoro insieme. È speaker, formatore, consulente, scrive per HuffPost e SenzaFiltro, e oggi è il nostro ospite per raccontarci l'ultimo lavoro editoriale che si chiama “Lavorare è da Boomer” e ha un sottotitolo esplicativo: dal culto alla cultura del lavoro; è un libro scritto per edizioni Fiordirisorse, è provocatorio nel titolo e racconta con analisi, esempi, dati e metodi uno scenario che sta profondamente cambiando.

Uno scenario che vede in contemporanea agire quattro generazioni molto differenti tra di loro, con un dialogo che evidentemente è un po' difficile da realizzare e che provoca uno scollamento non solo di chi è al margine del mercato del lavoro ma anche di chi è dentro e che però vuole trovare evidentemente più soddisfazione, più coinvolgimento, mentre i dati ci raccontano che questo coinvolgimento da qualche anno a questa parte è sempre in progressivo calo.

Cosa sta accadendo al lavoro? E perché “lavorare è da boomer”?

RM - Hai detto bene, è un po' una provocazione per richiamare l'attenzione, anche se un fondo di verità c'è, nel senso che non lavorare in assoluto è una cosa che non interessa ai giovani; ma un certo tipo di concezione del lavoro, che è stata molto forte nella generazione X, in parte anche nella Boomer e nei Millennials, di cui io faccio parte, è venuta meno, interessa meno, funziona meno. Non è tanto questione di decidere se era giusta o era sbagliata, ci si può discutere. È semplicemente che quel tipo, quel modo di pensare al lavoro, sta funzionando sempre meno.

Io l'ho provato a descrivere con questa formula del “culto del lavoro”. Io sono veneto, una terra che ha avuto e ha ancora un forte culto del lavoro. Se ci pensate c'è tutta una serie di parole, un vocabolario, che abbiamo legato al lavoro per lungo tempo che passa dal sacrificio alla passione alla dignità al talento - non a caso sia passione che talento sono termini evangelici -. Questo vocabolario a pensarci bene tradisce un'idea di lavoro come una specie di entità a cui appunto bisogna sacrificare qualcosa, e in cambio questa entità ti darà dignità.

Se non lavori non sei degno: è questo il sottotesto, in qualche maniera. Cioè sei un adepto, fai parte del rito, allora sei parte del gruppo, altrimenti no. Questa cosa qua ha funzionato benissimo per un secolo scarso; da un po' quella roba lì non funziona più.

Un patto fondamentale che è saltato

Qual era il patto fondamentale del lavoro che è stato proposto più o meno fino alla mia generazione? Tu studia con profitto, lavora con impegno e rispetta le leggi, paga le tasse e in cambio il sistema ti ripaga.

Oggi se studi con profitto ti prepari al futuro? Se lavori con impegno questo ti permette di avere una tua autonomia, costruire una tua famiglia? Se rispetti le leggi e paghi le tasse lo Stato, in qualche maniera, ti garantisce un reddito con la pensione quando non potrai più lavorare? O ti sostiene con un sussidio di disoccupazione, quando è il caso?

Se ci pensate, tutte e tre queste cose per i giovani non funzionano più, perché la scuola non ti può preparare il futuro - ma mica per colpa della scuola: non sappiamo cosa potrà succedere neanche tra sei mesi, tra un anno, figurarsi…; il lavoro, vuoi perché è precario, vuoi perché i salari sono bassi, vuoi perché la gente vuole cambiare - perché c'è anche questo tema, perché l'idea di stare 40 anni nella stessa azienda, sentirsi parte di una famiglia, non piace più tanto alle persone – non mi dà un'autonomia, una sicurezza per potermi comprare casa, farmi una famiglia o che so, prendermi un'auto. E la pensione è qualcosa che non vedremo mai più.

Quindi questo patto qua va cambiato. Adesso la patata bollente è nelle imprese. Sono vent'anni che glielo si dice. Per un po' l'hanno presa sottogamba, anche comprensibilmente, e adesso sono in tragico ritardo, con le dovute eccezioni. Adesso i lavoratori sono una merce scarsa e pensano di poterli sostituire con l'automazione. Io ho i miei dubbi, diversi dubbi su alcuni aspetti, e quindi quella roba lì o l'affrontano il prima possibile, oppure la sostenibilità del loro business è a rischio.

VV - Parli molto delle organizzazioni, perché è lì il cardine del cambiamento; però il cambiamento è anche tra le persone. Tu nel libro hai una serie di schemi che proponi come metodologia ad iniziare da uno schema che cambia il processo nelle persone cioè dallo schema “faccio/ho/sono” si passa allo schema “sono/faccio/ho”; in breve, ci puoi spiegare perché è necessaria quest'inversione?

RM - Piccolissimo preambolo. Io per tantissimo tempo ho lavorato con le persone per cercare lavoro, quindi sono sempre stato dall'altra parte della barricata. Molti giovani, ma non solo. Adesso questo libro è più scritto per chi sta dentro le organizzazioni, perché la “ferita” è di là. Però povviamente ho tutto un percorso pregresso con le persone.

Quali sono le tre motivazioni fondamentali per cui lavoriamo?

Per il sostentamento (pagare le bollette);
Per l’identità - perché il lavoro fa parte della nostra percezione identitaria. Passi il 40% della tua vita a lavorare, è sicuramente una parte della tua identità, quanto meno sociale, ma anche la tua percezione -.
E, terza e ultima cosa, per la trascendenza, ovvero onorare qualcosa di più grande di te.

Queste tre componenti sono state spesso presentate con la famosa piramide di Maslow: parti dal sostentamento e arrivi all'autorealizzazione. L'idea è che se tu non parti dal sostentamento non arrivi alla realizzazione. C'è un ordine predefinito, prestabilito. In realtà non è necessariamente così, perché prendiamo l'esempio estremo, ma per capirci, quello che si va a ritirare in montagna e vive con una ciotola di riso e sta in meditazione tutto il tempo, ha il sostentamento al minimo ma di autorealizzazione magari ne ha in abbondanza e va avanti così, ok?

Allora, qual è stata la spinta del passato, che è anche quella del culto del lavoro, delle generazioni boomer e X?

C'era da fare, c'era da ricostruire un Paese, quindi tu fai, non importa cosa. Di solito fai quello che fanno i genitori. Andiamo un po' al tema dell'orientamento: produci lavoro duro, gavetta e vai, perché dobbiamo metterci a posto il sostentamento. Poi, se ti va bene, arrivi al benessere, a potersi permettere il vestito bello la domenica, oppure - in una fase un pochino successiva che interessa più Gen X e Millennials - ti qualifichi socialmente, cioè diventi quello che gira in Mercedes in paese.

Quindi, intanto tu fai, non importa tanto cosa, tu fai perché di lavoro ce n'è un sacco da fare, e questa cosa ti dà in cambio qualcosa, che sono risorse materiali oppure risorse di posizionamento sociale, e alla fine vedrai che sarai contento, perché in qualche maniera ti realizzerai. E una volta magari bastava. Oggi non basta più.

Adesso c'è un disperato bisogno di partire dalla definizione del sé, che ovviamente è un processo sempre incompleto, è un processo sempre in divenire. Lungo, ampio, certo. Però se tu parti da una definizione di un nucleo identitario, fai delle azioni che sono coerenti e hai in ritorno cose che continuano a contribuire alla definizione del tuo nucleo identitario, e quindi diventa un circolo virtuoso. Per cui, a differenza di una volta che si doveva partire dal fare, adesso bisogna partire dal definirsi, dall’essere, e qua c’è tanto lavoro per voi orientatori.

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VV - Infatti la domanda chiave, lo dico sempre anch'io quando realizzo incontri di orientamento e formazione, non è più “Cosa vuoi fare da grande?” ma “Chi vuoi essere da grande?”, cioè che persona vuoi essere, che cause vuoi rappresentare, che valori porti con te? Quello che ci stai dicendo sull'essere diventa la parte più profonda e che fa la differenza reale. Ecco un bel lavoro da fare. Tanta roba, perché il viaggio è lunghissimo e magari non si arriva mai ad avere tutte le risposte, però bisogna cominciare a interrogarsi su chi sono, realmente.

E per rovesciare il mindsete focalizzarsi sull'essere, probabilmente vengono meno quegli strumenti tradizionali che vengono proposti tradizionalmente come chiave di accesso al mercato del lavoro, come il curriculum. C'è un bellissimo capitolo, nel tuo libro, che mi ha fatto impazzire fin dal titolo, “Bruciare i CV”. Io sono profondamente d'accordo, ma forse a volte mi considero un po' tranchant su questo discorso. E allora chiedo a te: perché dovremmo bruciare i curriculum?

RM - Questo tra l'altro era il titolo anche di un mio primo manuale di ricerca al lavoro... Allora, fondamentalmente partiamo da questo: quello che c'è scritto dentro il cv è tutto quello che non interessa a un datore di lavoro, o lo interessa secondariamente; è uno strumento di selezione, non uno strumento di assunzione. Non serve a dire “io scelgo te”.

Quindi anche ammesso - cosa che non è - che possa rappresentare in maniera più o meno fedele il profilo di una persona, sapete benissimo che siamo una “macchina di pregiudizi”, cioè viviamo di pregiudizi, funzioniamo coi pregiudizi; bisogna esserne coscienti; noi non vogliamo selezionare fogli di carta, vogliamo selezionare persone.

I curriculum hanno tanti motivi per non essere rappresentativi; addirittura arrivano a mettere contro il datore di lavoro con il lavoratore, perchè diventano sospettosi l'uno dell'altro. Ipersemplificando, il lavoratore pensa: “Ma tu mi giudichi per questa cosa qua? Ma come faccio a spiegarti che l'anno X, per esempio, che sembra un buco nel mio curriculum, in realtà è stato utile perché ho fatto un’esperienza informale che è stata la più preziosa della mia vita? Oppure, per fare un esempio più tagliente - perché mi è capitato qualche volta con Job Club - io sono una donna velata e non voglio mettere la foto; ho capito, ma se ti chiami Fatima Bukarrà cosa penseranno? Vedono il nome e pensano che non parli l'italiano, si attivano i pregiudizi, e magari invece dentro quel nome c’è un gran percorso, c'è una laurea in biologia...

C'è questa diffidenza da una parte e dall'altra; però, quanto ti costa inviare un curriculum? Emotivamente tantissimo, però economicamente zero. Quindi tu magari lanci a pioggia. Non è che stai scegliendo me, non è che lo mandi a me. Siamo arrivati al punto in cui i candidati si fanno scrivere il CV con l'intelligenza artificiale e dall'altra parte fanno selezioni con l'intelligenza artificiale: di che cosa stiamo parlando?

E stiamo parlando di un meccanismo che, peraltro, se uno va a vedersi i dati, intermedia appena il 5% del mercato. Il 10%, se vogliamo metterci dentro le agenzie. Noi stiamo ossessivamente a parlare di qualcosa che compone appena il 10% del mercato del lavoro!

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VV - Mentre poi ci preoccupiamo poco delle relazioni, che intermediano la maggior parte delle opportunità di lavoro.

RM - Esatto, è sempre stato così, sarà sempre così, è così anche all'estero, forse da noi in Italia un po' di più. Un capitale relazionale che è anche una bella cosa da avere, no?

Non sono raccomandazioni. Quando mi è capitato di dare un consiglio ho detto: se devo dire una cosa in cinque secondi, “Esci e parla di lavoro con le persone”. Quella roba, che esattamente è quello che non vuole fare un disoccupato. Perché io se dico che cerco lavoro, mi taglio fuori da quel consenso sociale, in qualche maniera.

E quindi per chiudere, per non essere solo negativi, ma anche essere proattivi, quello che hanno sempre voluto sapere i datori di lavoro, ma anche i candidati quando cercano lavoro, fondamentalmente sono sempre tre cose:

a) Posso fidarmi di te?
b) Saprai relazionarti bene con me e con gli altri?
c) Ti piace un po' l'idea di fare questo lavoro?

Non deve essere per forza la tua passione, non è che ti devi svegliare la mattina con il “sacro fuoco della contabilità”, nessuno ha questa ingenuità. Però queste tre cose qua me le devi garantire, ok?

Nessuna delle risposte a queste tre domande fondamentali le trovi nel curriculum.

VV - Ottima panoramica, che mi vede perfettamente e completamente d'accordo. Spostiamoci dall'altra parte, dalla parte dei datori di lavoro, dalla parte dei manager e degli HR manager che troveranno utilissimo il tuo libro. Perché? Come orientatori dobbiamo porci anche il tema non solo di accompagnare le persone, ma anche di accompagnare imprenditori, manager, persone nelle organizzazioni che non trovano più un po' la via maestra e quindi che cosa possiamo fare per aiutare ad abbreviare, a mitigare questa distanza di dialogo che c'è con i lavoratori, soprattutto quelli delle nuove generazioni?

RM - Come dicevano, è un libro scritto soprattutto per loro, per chi gestisce organizzazioni grandi, piccole, fa selezione. C'è una prima parte di analisi un po' sociale, generale, di cui abbiamo parlato prima, però fondamentalmente vuole essere una specie di saggio manuale, per dire, vabbè, e adesso cosa facciamo? Al centro del libro c'è un modellino così chiamato delle 4A; lo spiego brevemente, dovete fare un piccolo sforzo di immaginazione, ma non è difficile.

Ci sono due dimensioni sociali fondamentali, che sono l'individuo e i gruppi o le comunità, che dir si voglia, e due dimensioni spaziali fondamentali che sono l'interno e l'esterno. Si mette in una matrice e nell'incrocio cos'hai?

Beh, nell'interno dell'individuo sono i dipendenti per capirci, no?

All'interno dell'organizzazione gli individui sono i dipendenti, i collaboratori, eccetera.

E qui la A che deve essere da faro è quella di Autonomia. Che attenzione, non vuol dire libertà. C'entra con lo smart working e anche con gli spazi, chiaramente, però il datore di lavoro o il manager dovrebbe spingere sempre di più a lasciare le persone di decidere come lavorare; che non vuol dire all'estremo ma si va verso una maggiore delega o responsabilizzazione degli individui all'interno delle organizzazioni. Chi la deve presidiare questa cosa qua? I manager, i middle manager, non necessariamente la dirigenza. Poi, ovviamente, se è una piccola azienda, come la grande maggioranza dei casi, sarà l'imprenditore.

Spostandoci dai gruppi interni alle comunità - anche qua dipende quanto più o meno grande l'organizzazione - il presidio fondamentale è la A di Ascolto. E qua si parla molto di ascolto attivo, ascoltare con attenzione, ma anche di più: stare tra le persone e intercettare e percepire possibili o potenziali conflitti prima che vengano espressi verbalmente. Perché questo è un altro enorme tema che non abbiamo tempo di affrontare, ma che è soprattutto sempre più evidente nei giovani; le persone hanno una grande difficoltà a relazionarsi di persona; nel mio ufficio la porta è sempre aperta, ma serve a poco perché la gente non viene attraverso quella porta. Devi essere tu ad andare. Come ho detto a diversi imprenditori, voi dovreste avere una persona, chiamatelo HR manager, quello che volete, che non ha un ufficio. L'unica cosa che deve fare è girare tra la gente. Ascoltare, parlare, connettere. Dovreste avere una persona che fa solamente questo.

E sempre sul fronte dell’ascolto e della relazione, tornando anche all'esempio dei CV, un'altra cosa che ho proposto: aprite uno sportello in cui fate fare un colloquio a qualunque persona di persona. Già che uno si alza, viene da te e ti viene a chiedere un lavoro, nel contesto in cui siamo, è già qualcuno per cui vale la pena investire quel tempo.

Spostandosi in basso a sinistra sull'esterno, gli individui fuori dall'organizzazione sono i clienti, i fornitori, eccetera. Qua non ci dilunghiamo molto, è un aspetto di marketing: però la A fondamentale è quella di Autenticità. Non è tanto più il gioco di dire siamo belli, siamo bravi, siamo i migliori, ma esplicitiamo anche i nostri punti deboli, e li proponiamo a te che stai sul mercato per capire se possono essere più o meno coerenti con i tuoi interessi.

Quindi c'è una specie di lavoro di, diciamo così, igiene comunicativa da fare, che deve affrontare il marketing in un mondo in cui siamo iperstimolati da 3500 stimoli all'acquisto e non possiamo competere con chi ha troppi mezzi e affolla la nostra infosfera.

Quarto e ultimo, è comunità esterne e qui è il campo dell'Autorevolezza. È diversa dall'autorità. Ha a che fare con la leadership, che non è la leadership gentile di cui si fa tanto parlare; per carità, certo che devi essere gentile, ma quello viene richiesto a tutti.

Tra l'altro è uscito proprio di recente un report interessante di Gallup sulla leadership mondiale; quello che viene fuori è che le persone chiedono alla leadership fondamentalmente speranza. Speranza e fiducia e comprensione. Io non voglio tanto che tu mi protegga, che sembra strano in un mondo così spaventoso, eccetera. Io non voglio che tu come leader mi protegga, mi capisca. Voglio che tu mi dia un'idea di andiamo; non è che me lo mostri con una tabella, ma perché sei un tramite di qualcosa di più grande. Questo ha sempre spinto le persone, in un certo senso. Quindi bisogna riscoprire un po' questa dimensione dell'autorevolezza.

Se uno riesce a fare tutte queste quattro cose, diventa un centro di attrazione e di fiducia, che peraltro è un bisogno che le persone hanno sempre di più; perché una delle vere tragedie del nostro tempo è che tutti i corpi intermedi tra individuo e Stato stanno venendo meno: i club, le associazioni, le parrocchie. Ormai è così. Le persone hanno bisogno di sentire, di appartenere, e allora devi costruire quel contesto di fiducia. La buona notizia è che non costa così tanto rispetto a rifare tutti i macchinari. La cattiva è che ci vuole tempo. I costi indiretti sono alti, però se non si fa al prima possibile, non so come andrà a finire onestamente per chi non si muove adesso.

VV - E a proposito di non so come andrà a finire, chiudiamo questa nostra chiacchierata allungando lo sguardo sul futuro. Siamo qui, nella casa degli orientatori: come li vedi nel futuro?

RM -Io li vedo benissimo, gli orientatori, nel senso che ce n'è bisogno come il pane. Nella mia stessa esperienza di JobClub, che era come detto un progetto per aiutare le persone a cercare lavoro insieme, all'inizio eravamo partiti con il tema del curriculum, del colloquio, ecc.. Poi abbiamo sempre più scoperto, nel tempo, che mancava sempre la parte precedente: la ricerca informativa, l'orientamento, il pre-orientamento, soprattutto per i giovani, anche gestione delle emozioni. Quindi di quella roba lì c'è bisogno come il pane. Il punto fondamentale è che però non è detto che, benchè una cosa serva, venga pagata e onorata dal mercato, lo stiamo scoprendo sempre di più, anzi questa è una delle più grandi distorsioni che vediamo; il lavoro di cura, per esempio.

Noi dicevamo, soprattutto ai giovani, studia programmazione informatica, perché sei sicuro che avrai un lavoro, sarai pagato bene. Ora arriva l'intelligenza artificiale e dicono ai programmatori informatici ciao, cioè fa già quasi tutto intelligenza artificiale e programmazione. Quindi, non sappiamo dove stiamo andando. Il punto fondamentale è che se noi teniamo il lavoro come un culto al centro di tutto rischiamo di reiterare una società in cui, la faccio semplice, non è che le macchine ci sostituiscono, ma noi continuiamo a creare lavoro inutile.

Questo in realtà è quello che è successo negli ultimi 50-60 anni. L'impatto dell'automazione c'è già stato nell'agricoltura, nella manifattura. Se guardi le percentuali in Cina, questo si è visto benissimo in maniera accelerata; la percentuale di gente nell'industria in Cina è passata dal 30-40% al 15%. E come l'assorbi tutta questa forza lavoro? Nei servizi. E noi abbiamo moltiplicato i manager, i controllori, i passacarte, la burocrazia, eccetera. Anche perché dovevamo rispondere a dei desideri di carriera. E siamo capacissimi di continuare a moltiplicare i lavori inutili, frustranti, disorientanti e alienanti. Perché? Perché è l'unico modo per dare un reddito alle persone. È l'unico modo di tenere insieme quel patto sociale lì. E ovviamente questo vorrà dire continuare a spingere sulla produzione, continuare a distruggere l'ambiente, eccetera. Questo modello qua è come una vecchia auto che ci ha portato lontano; ci siamo affezionati ma adesso non funziona più e va cambiata.

Io guardo i miei figli che hanno 9 e 6 anni: non ho idea di cosa faranno; credo che arriverà un reddito base universale; i soldi ci sono, è una questione di ridistribuirli. Non vuol dire che la gente smetterà di lavorare, anzi, sarà un'idea più ampia di lavoro. Dovremmo assolutamente dare maggiore dignità - ed è quello un modo di rivalutare al lavoro di cura e di cultura, che ancora adesso è considerato lavoro in serie B - e dovremo produrre anche meno, consumare meno.

Siamo in un mondo in cui siamo in grado di ordinare un tablet dalla Cina e farcelo recapitare in meno di una settimana. E poi, dall'altra parte, abbiamo una desolazione sociale, una depressione dilagante. Il 30% dei americani è clinicamente depresso.

Noi dobbiamo prenderci cura delle relazioni delle persone. La produzione, la produttività, è un problema che ci siamo abbastanza lasciati alle spalle o ci stiamo lasciando alle spalle. Il problema è di ridistribuire e ri-capire cos'è il lavoro. Gli orientatori su questo potrebbero fare tantissimo; il problema è che, mi viene in mente l'esempio dei Navigator, siamo ancora molto affezionati ad un’idea che non funziona più.

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VV - Questa è una bella traccia che ci dai, Riccardo rispetto al futuro di categorie professionali che devono cogliere i cambiamenti e tu in questa conversazione hai dato un quadro di come sta cambiando il mercato del lavoro e di dove l'attenzione dovrà sempre più andare, cioè alla persona, al suo essere profondo, alla cura, alla relazione. Questo è quello che si ettiva di carriera

petterà in funzione di un mercato del lavoro che continuerà a cambiare in modo estremamente veloce. Sono anch'io convinto che arriverà, è solo questione di tempo, un tema di reddito universale: sarà inevitabile per evitare uno scollamento pericoloso e una deriva sociale a cui ci stiamo un po' affacciando velocemente. Grazie, Riccardo.

RM - Grazie a tutti voi orientatori per il lavoro che fate perché davvero, lo dico senza piaggeria, è prezioso e ne avremo sempre più bisogno. L'atto di resistenza è mettere insieme le persone e farle ragionare su ciò che cambia e su loro stesse; quindi, grazie per quello che fate.

Vito Verrastro

Vito Verrastro

Orientatore Asnor, Direttore responsabile del Magazine l'Orientamento, Giornalista, Founder di Lavoradio.

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