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- 9/1/2024
Le conseguenze dell'assenza di ascolto sui luoghi di lavoro
Non ascoltiamo sempre allo stesso livello e con la stessa partecipazione. Ascoltiamo per apprendere e per conoscere, allo scopo di acquisire o condividere contenuti o per instaurare delle relazioni. Lo facciamo per noi stessi o per gli altri e il nostro grado di attenzione e interesse, sia al contenuto che alla persona, determina il successo della conversazione e della relazione. A cura di Marco Labate, Orientatore Asnor.
Dal punto di vista esistenziale, l'ascolto è correlato con l’essere riconosciuto come individuo e parte di una comunità o di una organizzazione. L’essere ascoltati rafforza la nostra identità e inclusione in un contesto aziendale.
Lavorare in un ambiente dove molti parlano ma nessuno ci ascolta farà crescere la sensazione di insoddisfazione personale. Non trovare l’ascolto voluto, può causare insicurezze e portarci all’isolamento.
In Psicologia, non essere ascoltati viene considerato un dolore sociale e attiva le stesse aree celebrali del dolore fisico, con effetti negativi sul nostro sistema cognitivo fino a pregiudicare la nostra predisposizione comunicativa e sociale.
Comunichiamo attraverso dei filtri personali che possono limitare la nostra stessa capacità di comprendere realmente ciò che ci stanno condividendo. Delle volte, ascoltiamo solo per confermare le nostre idee, fermi in una posizione che per colpa dei nostri pregiudizi e delle nostre supposizioni non ci consente di accogliere anche la versione degli altri.
Questo meccanismo può essere frutto di un atteggiamento della cultura del più forte, dove l’interazione è concentrata sul “mostrare i muscoli”. Discutiamo per avere ragione e non per condividere la ragione e tutto questo va ad influire sul benessere delle persone che lavorano insieme ma anche a livello organizzativo con possibili spaccature interne ai team o un calo della collaborazione tra diversi team.
Quanto ascoltiamo (veramente)
Chiariamo prima di tutto che ascoltare, azione volontaria che elabora i significati oltre che i semplici suoni, è differente da sentire, azione spontanea che riceve tutti i suoni e che non richiede necessariamente un coinvolgimento emotivo.
Sentiamo il 100% della nostra giornata (anche quando dormiamo) e ascoltiamo quando volontariamente decidiamo di farlo. Quindi ascoltiamo per nostra decisione, ma lo facciamo sempre in modo corretto?
Quante volte ci è capitato di percepire che il nostro collega o il nostro capo non ci stesse ascoltando? Sappiamo tutti quanto sia sgradevole questa sensazione, quanto ci arrechi disagio e condizioni negativamente anche la nostra esposizione.
I fattori che portano chi ascolta a non interessarsi a chi parla sono diversi:
- i pensieri personali;
- le distrazioni sensoriali (es. rumori);
- i pregiudizi;
- il tempo a disposizione;
- lo stesso argomento (non interessante);
- lo stesso stile comunicativo di chi espone.
Ma primo su tutti c’è il nostro approccio, la nostra predisposizione all’ascolto aperto e completo: dobbiamo voler accogliere i contenuti e i messaggi emotivi di chi parla.
Quante volte anche noi non abbiamo ascoltato davvero?
Cosa succede quando non veniamo ascoltati a lavoro
L’essere ascoltati è uno dei tre bisogni di relazione (partecipazione, riscontro e ascolto) ed è così profondo che, per ottenerlo, inviamo crescenti segnali di richiamo. La prima conseguenza negativa è che tanto più cercheremo l’ascolto, tanto più decrescerà l’esigenza di condividere un contenuto, che passerà decisamente in secondo piano.
Questo rischio è forte soprattutto negli ambienti lavorativi, dove il prolungarsi dell’assenza di risposta alla richiesta di ascolto può portare a comportamenti disfunzionali, delle volte attribuiti erroneamente a carenze motivazionali o professionali del collaboratore.
In questi casi, la richiesta di ascolto porta a livelli di richiamo alti, dove l’isolarsi può corrispondere alla perdita di stimoli fino ad arrivare a voler lasciare il team o addirittura la stessa azienda. Lo stesso modello SCARF del Dr. David Rock, tra i cinque fattori organizzativi che possono avere un effetto negativo sul luogo di lavoro, oltre allo status, alla certezza, all’autonomia e all’equità, prevede la relazione e quindi la condivisione e l’ascolto.
Quando il livello di relazione percepito è basso, aumenta il senso di minaccia e disagio. Anche se il collega non lo esprime apertamente, questo stato può compromettere la sua produttività. Tutto questo andrà poi ad influire non solo sulla sua efficienza ma anche su quella delle persone che lavorano insieme a lui.
Di fronte a determinate situazioni non favorevoli, reali o immaginate, il nostro cervello si predispone nella modalità allerta e attiva delle risposte fisiche ed emotive, difficili da reprimere. Quando percepiamo di non essere ascoltati ed esclusi dal contesto sociale, il nostro cervello avvia la stessa reazione applicata nelle situazioni di pericolo, che inizia in una regione chiamata amigdala.
Da qui, tutte le volte che ci troviamo di fronte a uno stimolo che interpretiamo come minaccia, parte una complessa reazione a catena. Quando ci sentiamo minacciati, sia fisicamente che socialmente, rilasciamo il cortisolo, detto anche “ormone dello stress”, insieme ad adrenalina e noradrenalina.
La combinazione di questi tre elementi aumenta il respiro e la pressione sanguigna migliorando la prestazione fisica per facilitare la prontezza di reazione. Questo meccanismo influenza negativamente la nostra creatività, la concentrazione e di conseguenza la produttività.
Esattamente all’opposto, quando veniamo premiati e ci sentiamo gratificati, il nostro cervello rilascia la dopamina, o “ormone della ricompensa”: semplicemente ci basta essere ascoltati, che il nostro capo ci chieda come va con il nostro progetto o che il CEO si ricordi il nostro nome o un fatto per noi importante.
Ma se al contrario, qualcuno entra nel nostro ufficio, saluta tutti tranne noi, cosa proviamo? Attenzione, il cortisolo è già lì pronto ad intervenire.