Venerdì 23 Agosto 2024

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  • 9/8/2024

LET'S TALK | Puntata 2: Intervista a Elga Corricelli, Co-founder dell'associazione Ricerca Felicità

L'Osservatorio Benessere e Felicità è il primo strumento di misurazione della felicità tutto italiano che raccoglie dati da oltre 1000 lavoratori autonomi, dipendenti, imprenditori e manager di tutta Italia nelle 4 generazioni al lavoro. Nato per rinforzare un orientamento culturale all’interno del movimento Happiness & Wellbeing attualmente in atto in Italia, è alla sua quarta edizione. Ne abbiamo parlato con Elga Corricella, Co founder dell'associazione che dà vita all'Osservatorio.

Puntata 2 – Ospite: Elga Corricelli, Co founder dell'associazione Ricerca Felicità. La intervista Vito Verrastro, Direttore responsabile del Magazine l’Orientamento.

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VV - Elga Corricelli è una Human and Social Sustainability Designer and Advisor. Nel caso specifico di quest'intervista l'abbiamo chiamata in causa come co-founder di Ricerca Felicità, un'associazione che da qualche anno ha ideato l'osservatorio Benessere e Felicità, un progetto annuale che nasce per voler comprendere lo stato attuale di felicità e di benessere nel nostro Paese, confrontando e coinvolgendo migliaia di persone di diverse classi generazionali e di diversa estrazione geografica. Come nasce l'idea di questo osservatorio e quanto è difficile provare a mappare uno stato che tutti ci dicono sia molto fugace, quale è la felicità, nel nostro Paese.

EC - Io, Elisabetta Dalla Valle e il professor Sandro Formica, i tre co-founder del primo osservatorio italiano Benessere e Felicità, siamo da sempre in cammino per portare condizioni migliori di lavoro alle persone italiane nelle organizzazioni. Oggi parliamo di well-being, parliamo di happyness, ma in ogni caso l'attenzione è rivolta a far lavorare meglio le persone, a stare meglio. Quindi, tre professionisti con storie molto diverse ma che si sono incrociati su questo grande tema che sta a cuore a tutti, e hanno deciso alla fine di provare a fondare un momento di misurazione, che quattro anni fa abbiamo chiamato “Barometro ricerca e felicità”, con un'associazione no profit che lo sostiene.

Non è un tema nuovissimo, quello legato alla felicità: i dati e le ricerche americane partono da 100 anni fa, anche se noi a volte la trattiamo ancora come se fosse una novità; chi si occupa di orientamento sa bene quanto sia importante questa dimensione all'interno delle organizzazioni di qualsiasi genere, nelle scuole, nelle università e nelle aziende. Se ne parla molto, ma tutti gli strumenti di misurazione - fino a quattro anni fa - erano solo internazionali. La cultura del lavoro in Italia e la cultura di noi italiani è davvero così simile alla cultura americana o nella cultura più vasta, globale? Era importante provare a fermarsi nelle nostre organizzazioni e misurare. Anche perché, se da un lato la felicità ci appare come vaga ed effimera, dall’altro è una competenza inquadrabile nelle human skills, e che quindi può essere allenata.

L'osservatorio ha preso in esame un campione di mille persone in Italia, con un grande riferimento ponderato su tutto il Paese, che rappresentasse tutte le regioni d'Italia e quattro generazioni, perché oggi nel mondo del lavoro abbiamo la compresenza di persone di età molto variabile. Abbiamo messo insieme queste caratteristiche e cercato di sondare imprenditori, liberi professionisti, collaboratori di aziende (con contratti regolari di qualsiasi categoria di qualsiasi industria), blue collar e white collar. E il risultato continua a essere, anno dopo anno, super interessante.

VV - Andiamo a vedere come sta cambiando il nostro Paese, anche perché di benessere e di felicità, soprattutto dopo il Covid, si parla tantissimo, perché ognuno è diventato più consapevole dei propri limiti, delle proprie aspirazioni, di quello che siamo disposti a cambiare anche magari rischiando un po' di più. Quindi che cosa ci dice l'Osservatorio? Come stiamo messi in Italia, a livello di felicità?

EC - In quattro anni abbiamo delle mappature piuttosto solide. Emerge che il lavoro è parte fondamentale della felicità personale e questo è un punto di attenzione veramente importante sia per le persone che sono nel mondo del lavoro che per quelle che si stanno affacciando; perché abbiamo consapevolezza che all'interno di questo spazio possiamo alimentare il nostro livello di felicità di vita oppure abbassarlo ulteriormente. E allora la domanda è: Dove do il mio contributo energetico? Dove vado ad alimentare il sistema? Qual è il mio ruolo nel contesto più ampio? Per cui abbiamo prima di tutto dovuto classificare benessere, felicità e soddisfazione, perché in un contesto professionale spesso vengono usati come sinonimi. Se dovessi fare una classificazione, felicità è il grande ombrello, che racchiude benessere e questo racchiude a sua volta la soddisfazione. Tutto ciò ci aiuta anche a discernere e può essere utile a capire come orientare verso il benessere, verso la felicità o come fermarsi al primo step, che è quello della soddisfazione.

Altra sfumatura: il benessere - quando intervistiamo i nostri italiani - ci dicono che sia molto più legato all'equilibrio psicofisico. Quindi lì dentro ci sono la flessibilità al lavoro e tutte quelle dinamiche che permettono di conciliare vita privata e vita professionale, ma la parte relazionale è legata un pochino di più al termine di felicità.

VV - In termini anagrafici e territoriali quali evidenze emergono dall’Osservatorio?

La Gen z è quella che si dichiara meno soddisfatta: nell'ultima edizione fatta a febbraio del 2024 per il 60% dichiarava di voler modificare o cambiare il proprio posto di lavoro o la propria attività professionale entro i 12 mesi. Al contrario, i più soddisfatti sono i baby boomers, cioè sono le persone che sono attorno ai 60 anni, che hanno fatto tranquillamente la loro carriera, anche se anno dopo anno aumenta la percentuale di boomers che dicono di voler cambiare lavoro. Il fil rouge di tutte e quattro le generazioni è proprio quello di voler dare un maggiore contributo.

Abbiamo proprio chiesto direttamente: Quanto pensi che il tuo contributo individuale possa agevolare la tua organizzazione? Per oltre il 70%, la risposta è stata: “Il mio contributo può fare la differenza”. È meraviglioso questo stimolo, perché significa che tutti noi ci sentiamo di non essere una pedina all'interno di un sistema, ma di essere un organismo che può far la differenza. Dall’altro lato, ce lo dicono ricerche internazionali autorevoli come Gallup, l’Italia è uno dei Paesi, penultimo in Europa, in cui l'engagement delle persone è bassissimo. Significa che le persone non si fanno coinvolgere, non mettono la loro energia per innovare, nonostante la spinta di contributo ci sia. Questi due segnali, messi vicino, ci aiutano a riscrivere nelle organizzazioni il paradigma del lavoro, e possono aiutare molto i professionisti come gli orientatori, in una duplice direzione: far sviluppare competenze importantissime come le soft skills nelle persone, e agevolare questo desiderio di far la differenza, di dare il contributo delle singole persone nelle organizzazioni.

Rispetto all’area geografica, sempre di più il Nord-Ovest appare come l’area meno felice. Ad una maggiore produttività, ad una gran quantità di aziende non sembra esserci maggiore possibilità di cambiamento e di scelta. Il Sud è invece l’area che apprezza maggiormente il contenuto del lavoro, il valore del lavoro, i valori anche personali che possono avere riscontro nel lavoro stesso.

Dal punto di vista del profilo, sono sofferenti più i blue collar rispetto ai white collar, e questo un po' ce lo potevamo aspettare; manager e imprenditori sono quelli che hanno un grado di soddisfazione maggiore, che comunque non arriva al 100% perché si ferma intorno al 60%.

VV - Se imprenditori e manager hanno un alto grado di soddisfazione, mentre i collaboratori si sentono poco ingaggiati, c'è da riempire questo gap?

EC - Sì, a nostro parere ci sono da modificare le regole di ingaggio all'interno delle organizzazioni. Ogni azienda può avere i propri ingredienti che rispecchino il ciclo di vita delle persone, che hanno la necessità di essere ascoltate. Quando i leader riescono ad ascoltare i bisogni delle persone accade la magia; si può tranquillamente mappare la costanza di alcuni bisogni, e quelli diventano bisogni primari, poi c’è la ragionevolezza della mediazione, come in tutte le attività. Ma piuttosto che subire un programma dall'alto (perché l'hanno utilizzato gli altri o perché è una piattaforma comoda, che permette una scalabilità internazionale, facile rispetto a parlare con le mie persone), le persone vogliono lavorare in un'azienda dove i propri valori vengano ascoltati e allenati costantemente; e che magari siano in linea con i valori dell'azienda. Vogliono lavorare in un ambiente dove ci sia una buona relazione umana: vuol dire autenticità, vuol dire inclusione, vuol dire la possibilità di esprimere il nostro vero sé. Ovviamente ogni collaboratore deve fare un lavoro di ricerca, deve sapere che cosa è importante per sé e che cosa chiedere, ma in ogni caso è sempre possibile trovare un punto di contatto se i leader e le organizzazioni si aprono all'ascolto attivo, l'ascolto reale, quello che mette la persona al centro e se le persone si prendono la responsabilità di raccontare quello di cui hanno bisogno. Questa è la formula. Poi ci sono tante dinamiche, tante sfumature, che vanno dal timore di esprimere le proprie emozioni (per paura di essere giudicati) alla differenza nel lavorare smart o hybrid, in cui soffro e quindi questo diminuisce un po' il mio livello di benessere e di felicità.

VV - Ogni organizzazione può e deve essere cucito su misura in funzione delle proprie esigenze, dunque. Ma ci sono dei modelli, delle buone pratiche, a cui rifarsi?

EC – Sì. Non farò dei nomi, ma alcuni sono anche facilmente riconoscibili. I modelli sono quelli in cui l'azienda si prende delle responsabilità scegliendo i valori che vuole proporre come azioni. I valori scritti su una parete non servono a molto, mentre quelli agiti nei processi quotidianamente aiutano le persone a capire qual è il modo di operare comune e alimentano i valori stessi, portando un pezzettino di più che anche dall'organizzazione all'area più grande, alla community, all'ecosistema. Perchè ognuno di noi fa parte di un sistema più grande: un professionista è un genitore, un figlio, un amico, un cittadino, e vuole essere migliore in tutti questi aspetti. Quindi valori dichiarati, identificati, condivisi e integrati nei processi, un “purpose” chiaro, uno scopo che vada oltre lo scopo di business. E poi la relazione di valore, in cui il leader ascolta, restituisce, adotta feedback generativi. Lì la persona è veramente al centro, perché oggi più che mai lo chiedono i lavoratori.

Chi ha fatto già delle dichiarazioni chiare, ad esempio, è tutto il mondo delle società benefit o delle benefit corporation, che ha scelto di dichiarare il proprio impatto anche da un punto di vista di ecosistema; che fa delle scelte di interdipendenza con altre società che si sono messe in cammino col medesimo impegno: quindi sostenibilità ambientale, sostenibilità individuale, sostenibilità sociale, perché la sostenibilità non è solo green. Qui l'happyness è una leva organizzativa e il well-being una cultura. Olivetti era un antesignano di queste dinamiche, avendo compreso quanto la cultura organizzativa fosse fondamentale e il benessere, la relazione di valore, il contributo, la sostenibilità sia nell'attrarre talenti, sia nel trattenerli, sia nel valorizzarli. Diventa tutto più chiaro perché ho dichiarato quali sono le regole di ingaggio.

Peraltro, società in cui le persone lavorano con il benessere e c'è un purpose chiaro arrivano a fatturare di più, ad avere una maggiore marginalità, ad essere più appetibili anche come valore di azioni, continuano ad essere attrattive.

Tutto ciò si evidenzia nell’Osservatorio: alla domanda su cosa si cercasse nel cambiare lavoro, gli anni precedenti c'era una dichiarazione abbastanza chiara sulla propensione di lavorare per un brand noto. Quest'anno soltanto il 3% ha dichiarato che il brand ha un peso nella propria scelta rispetto a poter dare un contributo di valore, essere visto come persona, avere una relazione generativa con il manager, sapere che la società sta alimentando il bene; emerge fortissimo questo tema di sostenibilità e l’avere la possibilità di esprimere la propria unicità. E qui entriamo appieno nel tema dell'inclusione, che è della persona, con tutto il valore di ognuno di noi.

VV - Come si orientano le persone verso la felicità? Abbiamo parlato tanto di lavoro, perché il lavoro è parte integrante della nostra vita e giustamente chiediamo al lavoro una quota di benessere e di felicità. Ma, più in generale che consigli possiamo dare ai professionisti, in questo caso orientatori, che vogliono dare un contributo a chi oggi si sente un po' meno ascoltato?

EC - Il primo consiglio sembrerà banale, ma io l'ho vissuto anche personalmente nel mio cambio di vita. Io sono stata imprenditrice, sono stata C-level e board member di multinazionali per molti anni prima di scegliere di lavorare con le persone, per aiutare le persone a lavorare meglio, e devo dire che la prima responsabilità è dell'individuo. Prima di tutto dobbiamo scegliere noi di essere felici, di alimentare la felicità come competenza, di lavorare sulle relazioni autentiche; dobbiamo scegliere di voler creare un sistema di benessere come individui, prima ancora che come professionisti, come studenti, come genitori: la responsabilità individuale è il primo passo.

Una volta fatta questa scelta possiamo chiedere di essere ascoltati nella nostra molteplicità di talenti, che spesso non ci rendiamo conto di avere. Il talento è saper fare bene una cosa investendo la giusta quantità di energia; non distruggersi per arrivare all'obiettivo ma fare ciò che ci viene più semplice. È un talento saper ascoltare, parlando sempre di human skills; è un talento il comunicare in pubblico, è un talento avere un'empatia particolarmente sviluppata, è un talento la capacità di risolvere problemi. Parlare e confrontarsi con un orientatore può dare quel giusto livello di esplorazione attraverso le domande, attraverso i consigli, attraverso gli stimoli che ci permettono di fare chiarezza anche verso noi stessi.

E poi è necessario sapere come si stanno muovendo i macro trend, perché spesso ci concentriamo sull'imparare qualcosa che forse non è nemmeno più così necessario perché sta già cambiando. Il confronto ci fa crescere tantissimo, ci apre le porte dell'esplorazione. Noi tendiamo a scegliere quello che pensiamo sia giusto o sbagliato a seconda dell'impatto che il sistema sociale ci suggerisce sia giusto o sbagliato, ma non è sempre così. Pensiamo alle donne al lavoro: le donne come leader, le donne come imprenditrici. È una questione di mindset, ma io per poterlo allenare devo anche in qualche modo sentirmi legittimata a farlo. Quindi parlare con persone che sanno indirizzarmi, frequentare corsi, scuole, fare semplicemente networking può alimentare questo mio desiderio di comprendere e mi permette di fare una scelta di valore, altrimenti rischio di ripetere quello che c'è sempre stato. E l'altro punto, confrontandomi con dei professionisti ho veramente modo di sfidare le mie convinzioni e di provare strumenti per valutare se la strada sia giusta per la vita, o quantomeno la migliore per quel momento che sto vivendo. Questo fa veramente la differenza, a mio parere, per essere felice, per lavorare in benessere, costruendo un sistema anche familiare di benessere.

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Dott. Vito Verrastro

Dott. Vito Verrastro

Orientatore Asnor, Direttore responsabile del Magazine l'Orientamento, Giornalista, Founder di Lavoradio.

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