- 2381
- 4 minuti
- 26/5/2021
Piano per l'Università: più fondi, ma non si possono spendere
Importanti finanziamenti per le università sono arrivati con il Decreto Rilancio ma sono bloccati dai vincoli finanziari imposti dalla penultima legge di Bilancio. l prelevamento di risorse finanziarie di un ateneo dai conti di tesoreria statale non può superare il limite massimo del fabbisogno finanziario dell’anno precedente aumentato del tasso di crescita del prodotto interno lordo reale stabilito dal Def che, attualmente, è pari allo zero virgola. Molto meno di quanto le università necessitano veramente.
Il 13 maggio il Consiglio del Ministri ha approvato il Decreto Rilancio, primo consistente finanziamento per quanto riguarda il settore dell’Alta formazione. I provvedimenti contenuti nel decreto a favore degli atenei e dei ricercatori stanziano 1,4 miliardi, così ripartiti: 300 milioni per il diritto allo studio, 600 per la ricerca e 500 per le università. Un aiuto significativo per un mondo che rischiava il collasso. Inoltre, il Primo Ministro ha annunciato l’assunzione di 4.000 nuovi ricercatori, augurandosi che queste misure favoriscano il ritorno in patria di tanti brillanti giovani che sono andati all’estero. Il ministro Gaetano Manfredi prevede di utilizzare gli stanziamenti così erogati sia per arginare il crollo (fino al 20%) di nuove immatricolazioni, sia per estendere borse di studio e sconti sulle tasse universitarie.
Senza entrare nei dettagli di spesa, basti pensare che, per assumere nuovi ricercatori nelle università, poi, a partire dal 2021 si stanzieranno 200 milioni di euro, più altri 50 milioni nello stesso anno per l’assunzione di ricercatori negli enti pubblici di ricerca. Questo significa che ai 1607 ricercatori di cui è già stata prevista l’assunzione se ne aggiungeranno altri 3.333, per un totale, al 1 gennaio 2021, di 4.940 nuovi ricercatori assunti.
Tuttavia, il parlamento universitario (CUN), pur ravvisando nel Decreto un importante passo avanti che avrebbe dovuto compiersi al di là della pandemia da Covid-19, nota come sia insufficiente dare più fondi all’Università se poi i singoli atenei hanno le mani legate e non possono spenderli. Le Università, infatti, hanno dei limiti di spesa per l’acquisto di beni e servizi imposti dalla legge di Bilancio 2020 a tutta la Pubblica Amministrazione.
«In una prima versione del decreto rilancio, in considerazione della situazione d’emergenza, questi limiti erano stati eliminati almeno per il 2020 - spiega un consigliere del CUN al Corriere della Sera -, ma sono poi stati reintrodotti quando il decreto è andato alla bollinatura della Ragioneria di Stato. Imporre agli atenei di rientrare nella media aritmetica delle spese del triennio 2016-18, con quasi metà esercizio 2020 trascorso e con una pandemia in atto, significa mettere a rischio attività come la manutenzione ordinaria degli immobili, gli abbonamenti alle banche dati delle biblioteche, i servizi di portierato, pulizia, vigilanza che consentono l’apertura delle sedi e perfino le spese informatiche».
Stando ai vincoli finanziari, il prelevamento di risorse finanziarie di un ateneo dai conti di tesoreria statale non può superare il limite massimo del fabbisogno finanziario dell’anno precedente aumentato del tasso di crescita del prodotto interno lordo reale stabilito dal Def che, attualmente, è pari allo zero virgola. Molto meno di quanto le università necessitano veramente, causando così l’attuale stato di sofferenza in cui versano molti atenei.
Un impasse su cui hanno dibattuto molto i precari e le precarie della ricerca. «Il Decreto Rilancio non incide, o lo fa marginalmente, su molti problemi preesistenti - si legge in una lettera aperta al Ministro Manfredi - (…) Il Decreto, inoltre, non interviene su altrettante questioni ordinarie che come precarie e precari della ricerca denunciamo da molti anni: nulla si dice sulla disparità di genere che colpisce in modo indiscriminato sia le ricercatrici precarie – su cui, durante la pandemia, è ricaduto gran parte del carico di lavoro di cura – sia i ruoli apicali. Né si può dire che la stabilizzazione di circa 5000 precari/e risolva, con un colpo d’accetta, l’endemica strutturalità del precariato accademico che la riforma del pre-ruolo ex legge Gelmini 240/2010 aveva introdotto. I contratti di dottorato, degli assegni di ricerca e degli RTDa ci collocano infatti da tanti anni (e per tanti anni) in una situazione giuridicamente ambigua. Dottorande/i e assegniste/i – definite/i contemporaneamente lavoratrici/ori e soggetti in formazione – si trovano senza accesso alla maggior parte degli ammortizzatori sociali previsti per i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese. (…) Vanno inoltre appianate le disparità che esistono tra atenei del nord e del sud Italia, attraverso una più equa ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario che miri non a premiare gli atenei più competitivi, ma a potenziare gli atenei economicamente più deboli, possibilmente con l’abolizione della quota premiale».